Uno sguardo veneto sulla Liturgia, musica e arte sacra, le attualità romane e le novità dalle terre della Serenissima.
Sul solco della continuità alla luce della Tradizione.

Aquileia e Venezia si preparano ad accogliere il Pontefice



La prossima visita di Papa Benedetto XVI ad Aquileia e Venezia, prevista sabato 7 e domenica 8 maggio 2011, è stata al centro dell'assemblea dei vescovi della Conferenza Episcopale del Triveneto riuniti oggi a Zelarino (Venezia). I vescovi hanno manifestato gioia e gratitudine per l'attenzione che il Papa ha così voluto rivolgere alle Chiese di questa regione ecclesiastica che comprende il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e il Trentino Alto Adige. E' stato riaffermato il carattere pastorale della visita del Successore di Pietro che viene a confermare la fede delle Chiese e delle genti del Nordest e ad aiutare tutti, come ha sottolineato il Patriarca di Venezia e presidente della CET card. Angelo Scola, a ''riappassionarci dell'umano''. La proposta cristiana, infatti, raggiunge e investe l'uomo e lo cambia. La visita del Papa inizierà, nel pomeriggio del 7 maggio, ad Aquileia, da dove è giunto il primo annuncio della fede al Nordest e alle altre regioni europee limitrofe: qui Benedetto XVI incontrerà i vescovi e i delegati delle diocesi. Sarà questo il momento di avvio della fase interdiocesana del secondo Convegno Ecclesiale delle comunità del Nordest che si svolgerà proprio ad Aquileia nell'aprile 2012. La mattina di domenica 8 maggio si terrà nel Parco di San Giuliano a Mestre l'appuntamento principale: la Santa Messa, presieduta da Papa Benedetto XVI, a cui sono invitati tutti i fedeli delle 15 diocesi del Triveneto. Sarà l'espressione visibile della comunione tra le Chiese e con il Papa. Per favorire il concorso dei fedeli a questa straordinaria celebrazione nella diocesi di Venezia le Messe della domenica mattina saranno sospese; anche nelle altre diocesi del Triveneto, i vescovi invitano a ridurre il numero di celebrazioni nella stessa mattinata per permettere ai sacerdoti e ai fedeli di essere con il Papa a Mestre. Il pomeriggio dell'8 maggio sarà dedicato alla parte veneziana del viaggio del Papa che concluderà così la Visita pastorale attualmente in corso nel Patriarcato.




da Asca (via La Vigna del Signore) immagini googleimmage

Contrasti liturgici: qualche immagine da Mirano

Proponiamo qualche scatto della bella e seguitissima Messa cantata (che avevamo già annunciato), Celebrata nella moderna Parrocchiale di San Leopoldo Mandic in Mirano, dal don Konrad zu Loewenstein lo scorso sabato.















 

L'enigma liturgico: la "riforma della riforma"



E' assodato che uno dei punti più importanti del pontificato di Papa Benedetto XVI (ma anche della sua attività da cardinale) è procedere alla cosiddetta “riforma della riforma” del Messale del 1969. Dopo la sua elezione al Soglio Petrino sembrava abbastanza plausibile che il Sommo Pontefice avrebbe proceduto ad una revisione (quantomeno rubricale) dei libri liturgici riformati dopo il Concilio Vaticano II (nota 1). Finora, dopo cinque anni, non si è proceduto in questo senso; è apparso invece chiaro, nel corso del tempo, che l'opera di papa Ratzinger è volta non tanto ad una riforma dei testi, quanto ad un precisa volontà di "convertire" l'ars celebrandi: in altre parole, cambiare lo spirito con cui il celebrante si accosta alla sacra liturgia e la compie. Riscoprire il mistero, la centralità della posizione di Dio, la piccolezza dell'uomo dinanzi al suo Signore, riannodare visibilmente il culto odierno con quello che per secoli la Chiesa ha elevato all'Altissimo: ecco alcuni dei punti cardine, attuati tramite gesti concreti (il Crocifisso al centro dell'altare, la Comunione sulla lingua ed in ginocchio, la cura per la musica liturgica, la bellezza del rito, etc.). Papa Benedetto ha adottato questi comportamenti, ma non li ha imposti: è nondimeno evidente che essi non sono certo prerogativa delle liturgie papali, ma che dovrebbero diffondersi nelle celebrazioni in tutto il globo (pur se non si può dimenticare che effettivamente vi possono essere degli adattamenti – non stravolgimenti – dei riti in luoghi in cui la gestualità o la sensibilità occidentale non è condivisa o compresa).
Al di là delle posizioni liturgiche personali, chiunque abbia a cuore il destino di tante anime di fedeli cattolici, non può che gioire dinanzi ad una prospettiva di recupero della sacralità del culto e di progressivo abbandono di certe pratiche antropocentriche (se non antropolatriche) che, abusivamente, si sono nondimeno diffuse nell'orbe cristiano.
Anche chi ritenga che l'attuale forma straordinaria del rito romano sia intrinsecamente migliore di quella ordinaria può difficilmente pensare come realizzabile un'operazione di pura imposizione del rito tridentino nell'intera Chiesa Cattolica. Si può, mi pare, pensare legittimamente che questo sia un obiettivo da raggiungere, ma non si può non considerare l'impatto che un simile provvedimento avrebbe sulla Chiesa. Credo che chi immagini un atto simile come automaticamente annientatore della crisi nella Chiesa finisca col cadere in un ottimismo poco realistico (fatto salvo che, ovviamente, le vie del Signore non sono le nostre). Per questo un movimento di “tridentinizzazione” (nota 2) della Messale paolino pare possa e debba essere accolto con favore, quantomeno, se proprio si vuole, in un'ottica di transizione.
Acclarato questo, non posso che essere dispiaciuto nel constatare che, da un punto di vista normativo, in Italia un'operazione simile pare di non facile attuazione. Nel 1983, infatti, la Conferenza Episcopale Italiana emanò delle norme (nota 3) in materia liturgica che non sempre si conciliano facilmente con un'ottica di “riforma della riforma” del Messale del 1969.
Già il primo punto, che tratta di “gesti e atteggiamenti”, parla per esempio di inghinocchiarsi, durante la preghiera eucaristica, solo dall'epiclesi all'elevazione del calice: la pratica tradizionale è invece di rimanere inginocchiati per tutta la durata della stessa preghiera eucaristica, che del resto è il momento culminante della Santa Messa, in cui avviene il mirabile mistero della transustanziazione.
Nel prosieguo del documento, al punto 12, una frase lapidaria sembra porre un macigno su un punto alquanto importante della “riforma della riforma”, e cioè quello che riguarda la lingua liturgica. Si afferma infatti che “Nelle Messe celebrate con il popolo si usa la lingua italiana.” In casi particolari (fedeli con lingue diverse o per “vera motivazione”) l'Ordinario può autorizzare l'uso della lingua latina. Da un punto di vista giuridico, quindi, un sacerdote non può celebrare in latino cum populo senza l'autorizzazione del proprio Ordinario.
Ancora, al punto 14, si prescrive che l'altare debba essere unico e versus populum. In casi particolari (sostanzialmente quando vi siano problemi di rilievo artistico del vecchio altare), si concede di poter installare un altare mobile. Da questo punto di vista, l'autorevole esempio del Sommo Pontefice, che ha celebrato nella Cappella Sistina sul vecchio altare coram Deo, rinunciando a quello mobile versus populum, pare essere un elemento alquanto importante discutendo di questo punto. E' comunque chiaro che l'altare versus populum, in sé, non proibisce la celebrazione coram Deo.
Detto in altri termini, voler celebrare in latino, coram Deo, col Messale del servo di Dio Paolo VI e rispettare contemporaneamente le prescrizioni della Cei pare un'operazione che si può definire perlomeno difficoltosa. Mi sembra quindi del tutto auspicabile che, nell'ottica dell'introduzione (che avverrà presumibilmente nei prossimi anni) in Italia della traduzione in lingua vernacolare della III edizione tipica del Messale Romano, si possa procedere pure ad una rivisitazione delle suddette norme: quelle contenute nelle rubriche del Messale Romano paiono, in linea generale, già molto elastiche e quindi non pare necessitino di molti adattamenti.

(nota 1) Si veda ad esempio l'opinione di Vittorio Messori “Una sola cosa sulla quale credo di non sbagliarmi: un intervento rapido drastico sulla liturgia per ridarle stabilità e sacralità.” (Corriere della Sera, 20 aprile 2005).

(nota 2) Con “tridentinizzazione” intendo una riscoperta delle radici più profondamente tradizionali del Messale del 1969 (che pure vi sono, ad un'oggettiva analisi), non certo un'operazione puramente estetica.

(nota 3) Si possono trovare, ad esempio, qui: http://www.celebrare.it/documenti/pnmr/11_frame.htm



sopra, una Celebrazione nella Forma Ordinaria del Rito Romano al London Oratory.

immagini da Corbis, New Liturgical Movement

Avviso sacro: Messa cantata a Mirano



I frutti del Motu Proprio nelle moderne chiese parrochiali. Questa volta Padre Konrad zu Loewenstein Celebrerà nella moderna Chiesa parrocchiale di San Leopoldo Mandic in Mirano (via Wolf Ferrari 39), nella provincia veneziana, sabato 27 novembre alle ore 16:30.


Messa cantata

Sabato 27 novembre, ore 16:30

Chiesa parrocchiale San Leopoldo Mandic
in Mirano (Venezia)

Celebra don Konrad zu Loewenstein

immagine da venezia.fssp.it 

Il terzo Concistoro di Papa Benedetto, tra porpore e musica








Esattamente tre anni fa, il 24 novembre 2007, giorno in cui Benedetto XVI celebrò il suo secondo Concistoro per la creazione di nuovi Cardinali, le bocche aperte furono molte: da moltissimo tempo infatti un Pontefice non si presentava in San Pietro con paramenti così solenni, e da altrettanto tempo non presiedeva una celebrazione assiso sullo storico, monumentale trono di Leone XIII. Insomma, una vera e propria "novità sacrestanesca", che ha spazzato via i neutri grigi paolini.
In occasione, dunque, del terzo Concistoro convocato dal Papa, si poteva sì attendere la grande solennità a cui Mons. Marini ci ha abituati, ma nessuno avrebbe pensato di dover nuovamente restare "a bocca spalancata". Se, appunto, il Concistoro di tre anni fa aveva rappresentato il rispolverare di troni e mitrie antiche, quello di stamattina si può certamente considerare come l'apoteosi della spolveratura della tradizione musicale vaticana (e un po' veneziana): le fanfare argentee alle logge, il Tu es Petrus di Palestrina, e Gabrieli, e Bach! La presenza del grandioso Bartolucci tra i novelli porporati avrà influenzato le sorti musicale della Celebrazione? Mah... spazio al Monsignore genovese, spazio al Palombella salesiano.

Ecco la bella Sonata pien'e forte di Giovanni Gabrieli, eseguita durante il Rito:


Di seguito qualche bello scatto del solenne Concistoro:















immagini da Corbis, Daylife.

Giotto in HD: il capolavoro a portata di click




Il più grande e completo lavoro dell'artista fiorentino in alta definizione, tra il Cenacolo vinciano e  la pozziana Gloria di Sant'Ignazio. Per sei mesi gli affreschi della Cappella degli Scrovegni, tra i massimi capolavori dell'arte sacra occidentale, saranno disponibili sul sito haltadefinizione.com. Ecco le lacrime della madri disperate nella Strage degli Innocenti, le struggenti espressività della Crocifissione, la torcia che irrompe sul buio nel Cristo portato a Caifa: quattordicimila foto di una delle più belle pagine della storia dell'arte (sacra).

 
 immagini da g.immage

Splendori veneziani: Gabrieli a San Rocco




Dopo aver dedicato un post alla figura di Giovanni Gabrieli con un piccolo assaggio della sua grandiosa produzione musicale per la Basilica marciana, oggi proponiamo un altro suo Mottetto, composto per il secondo polo culturale della Venezia del tempo, la Scuola Grande di San Rocco. Gabrieli per la Scuola Grande compose forse le sue opere più illustri, sollecitato da una committenza che poteva permettersi i migliori musicisti in circolazione.  

Il Mottetto Buccinate in noemenia tuba a 19 voci, edito nel 1615 nella raccolta Symphoniae Sacrae II e probabilmente destinato ad una solennità riguradevole, come la Festa del Santo titolare della Scuola Grande, festeggiato in gran pompa il 16 agosto di ogni anno. Questo Mottetto "istromentato" da collocare nella piena maturità dell'autore per l'uso ormai definito di strumenti e voci, è stato inserito da Paul McCreesh nella sua storica incisione del 1996 (eseguita proprio nella Sala Superiore della Scuola Grande di San Rocco) "Musiche per la Festa di San Rocco" di cui di seguito proponiamo l'ascolto.


Buccinate in neomenia tuba,
In insignie die solemnitatis vestrae.
Alleluja.
In voce exultationis,
In voce tubae corneae
Exultate Deo adjutori nostro.
Alleluja.

Jubilemus Deo in chordis et organo,

In tympano et choro.
Cantate et exultate
Et psallite sapienter.
Alleluja.


 
 
 
 

Naturlamente, sperando di fare cosa gradita, in futuro dedicheremo ancora spazio alla strepitosa musica del Gabrieli per San Rocco.

immagini da g.immage

I dilemmi tridentini: uno spirito per ogni Concilio

 

Tra il 1545 e il 1563 nel nord Italia (principalmente a Trento, tranne un periodo bolognese) si tenne, con alcuni periodi di interruzione, il Concilio Tridentino. Ad esso sono seguiti, in quasi cinque secoli di storia della Chiesa, appena altre due assisi conciliari: il Vaticano I (1869-70) e il Vaticano II (1962-65). Essi si inseriscono, in ogni caso, in un lungo elenco di Concili: nella Chiesa Cattolica se ne individuano in tutto ventuno, comprendenti oltre sedici secoli di storia cristiana. Ognuna di queste solenni assemblee ha il proprio posto e la propria dignità, pur se alcune possono aver lasciato un peso maggiore di altre.
Nonostante questa prospettiva, a partire da una quarantina d'anni fa si è andata purtroppo diffondendo un'idea di rifiuto di tutto ciò che non sembrasse in linea con una malintesa idea di “spirito” del Concilio Vaticano II. Questa prospettiva, è bene dirlo, non è stata fatta propria, generalmente, dai pastori della Chiesa e, soprattutto, dai Sommi Pontefici che, dopo il beato Giovanni XXIII, hanno esercitato il ministero petrino. Eppure in troppi settori ecclesiali è stata accettata l'idea che la Chiesa fosse stata “rifondata” negli anni Sessanta e che si dovesse lavorare per demolire una generica “Chiesa costantiniana”, giudicata contaminata, deviata, lontana dalla purezza del cristianesimo primitivo. In una simile visione il Concilio di Trento veniva a trovarsi sotto un fuoco poco amichevole, giudicato come espressione di una visione inevitabilmente sorpassata di Chiesa. Ma esso fu probabilmente visto anche come un ostacolo al cammino ecumenico verso i fratelli protestanti: Trento diventava così sinonimo di inaudita rigidità teologica, di scarso afflato dialogico, di fondamentale espressione di una Chiesa troppo “ricca”, “lontana”, “chiusa”.
Questa rappresentazione, alquanto parziale, non è ancora morta del tutto: essa ha prodotto gravi danni tra i fedeli ed è importante che venga estromessa, poiché, oltre ad essere scarsamente fondata, è pure foriera di rischi alquanto elevati sul piano dottrinale. E questa è una preoccupazione alquanto importante, nonostante le voci in contrario. Quest'idea, del resto, è già stata affrontata e confutata oltre vent'anni fa dall'allora cardinal Ratzinger (nota 1).
Il Concilio di Trento, infatti, intervenne in maniera decisa per ristabilire e difendere l'ortodossia cattolica contro i forti attacchi delle idee protestanti. In esso vennero ribaditi e definiti molto chiaramente punti fondamentali del patrimonio dottrinale cattolico: il rifiuto del libero esame delle Sacre Scritture, del predestinazionismo protestante; l'accettazione della dottrina del peccato originale, dei sette sacramenti, della Presenza Reale, del Santo Sacrificio della Messa, del sacerdozio ministeriale, del Purgatorio, del culto della Beata Sempre Vergine Maria e dei santi, delle reliquie, delle indulgenze. Il Tridentino trattò ovviamente anche d'altro, ma questi mi sembrano i punti principali. Certamente non si pretese di svolgere una piena e totale esposizione del dogma cattolico, ma nondimeno si vollero precisare e chiarire quei punti che il protestantesimo aveva messo in pericolo.
A questo punto forse potrebbe sembrare avere un qualche fondamento l'idea che un processo ecumenico verso i protestanti debba necessariamente passare, se non da un'abolizione, quantomeno da una revisione di Trento. Non è così: ha infatti affermato il Concilio Vaticano II che “Bisogna assolutamente esporre con chiarezza tutta intera la dottrina. Niente è più alieno dall'ecumenismo che quel falso irenismo, che altera la purezza della dottrina cattolica e ne oscura il senso genuino e preciso.” (nota 2)
Del resto, la Madre Chiesa è rimasta fedele anche oggi – e non si vede, del resto, come potrebbe non esserlo – a quanto venne da essa medesima definito a Trento: il Concilio Vaticano II presenta innumerevoli citazioni e rimandi al Concilio Tridentino, così come l'attuale Catechismo della Chiesa Cattolica.
I Sommi Pontefici hanno chiaramente manifestato questo pensiero. Il servo di Dio Paolo VI nel 1964 (quindi in pieno Vaticano II) parlò del “grande Concilio ecumenico che appunto da Trento prende il suo nome” (nota 3), di “grande opera del Concilio di Trento” (nota 3), affermò che “lo spirito del Concilio di Trento è la luce religiosa non solo per il lontano secolo decimosesto, ma lo è altresì per il nostro” (nota 3) e che “lo spirito del Concilio di Trento riaccende e rianima quello del presente Concilio Vaticano, che a quello si collega e da quello prende le mosse” (nota 3).Ma anche il venerabile Giovanni Paolo II non ha fatto mancare la propria voce in merito, parlando in proposito di “grande evento della storia della Chiesa” (nota 4), di “inestimabile occasione di grazia e di religioso rinnovamento” (nota 4), di “grande risposta della fede cattolica alle sfide della cultura moderna ed agli interrogativi posti dai Riformatori” (nota 4) e diversi altri elogi ancora.
Infine, anche l'attuale Pontefice regnante, Benedetto XVI, ha per esempio ricordato il Concilio di Trento come “nuova attualizzazione e una rivitalizzazione della […] dottrina” (nota 5).
In conclusione, penso appaia alquanto evidente come il Concilio di Trento, oggetto di eccessivi attacchi e ingiustificate amnesie, è invece un momento tuttora fondamentale della storia della Chiesa e conserva tuttora i suoi benefici effetti sulla cristianità. E' pur vero che, d'altro canto, pare poco giustificabile la pretesa di chi volesse ergere il Tridentino a propria esclusiva bandiera ed utilizzarlo come una sorta di clava per rivendicare un impossibile ritorno ad una “Chiesa Tridentina” che, peraltro, non è poi di così semplice individuazione, poiché la realtà ecclesiale è varia e complessa.


(nota 1) “ [...] Circolano facili slogans. Secondo uno di questi, ciò che oggi conta sarebbe solo l'ortoprassi, cioè il "comportarsi bene", l' "amare il prossimo". Sarebbe invece secondaria, se non alienante, la preoccupazione per l'ortodossiaortoprassi, dell'amore per il prossimo, non cambiano forse radicalmente a seconda dei modi di intendere l'ortodossia? Per trarre un esempio attuale dal tema scottante del Terzo Mondo e dell'America Latina: qual è la giusta prassi per soccorrere i poveri in modo davvero cristiano e dunque efficace? La scelta di una retta azione non presuppone forse un retto pensiero, non rinvia forse alla ricerca di una ortodossia? [...] ” (J.Ratzinger, Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2005 (edizione originale 1985), pag. 19-20. Il corsivo è presente nell'opera citata.

(nota 2) Cfr. Decreto sull'Ecumenismo Unitatis Redintegratio, n. 11.

(nota 3) Cfr. Omelia di Paolo VI dell'8 marzo 1964.

(nota 4) Cfr. Discorso di Giovanni Paolo II a Trento del 30 aprile 1995.

(nota 5) Cfr. Risposte di Benedetto XVI ai sacerdoti della diocesi di Albano, 31 agosto 2006.
    


 
immagini da Corbis

Bonaventura Badoer da Peraga, un Beato Cardinale





Il Cardinal Bonaventura Bodoer da Peraga è una di quelle splendide figure che meritano di essere riscoperte, soprattutto in questo porpureo novembre "concistoriale". La Diocesi di Padova lo ricorda nella Liturgia proprio il 5 novembre. 


Bonaventura Badoer (o Baudario) da Peraga, discendente di Marin Badoer e di Balzanella (o Bolzonella), figlia di Pietro da Peraga, entrò giovanissimo nell’Ordine di Sant'Agostino, presso il convento di SS. Filippo e Giacomo di Padova, detto comunemente degli Eremitani.
È documentato che nel 1358 ebbe un’autorizzazione, da parte dei suoi superiori (frate Gregorio Da Rimini) di frequentare l’Università della Sorbona a Parigi. Sembra si sia laureato nel 1362, di certo lì ha insegnato. È documentato dalla bolla (giugno 1364) del Papa Urbano V, che fu tra i nove Maestri di Teologia che furono incaricati di costituire il collegio e compilare gli statuti della nuova facoltà di Teologia presso l’Università di Bologna. Non è dato di sapere quanto tempo rimase ad insegnare a Bologna ma sappiamo che nel 1366 era a Padova. Nello stesso periodo parigino di Bonaventura si laureò in teologia alla Sorbona anche un suo fratello (“uterino”), Bonsembiante Badoer da Peraga (3 giugno 1327 - Venezia, 28 ottobre 1366), frate dell’Ordine degli Eremitani di Sant'Agostino.
I fratelli Badoer Peraga avevano una forte amicizia con il poeta Francesco Petrarca. Una forte testimonianza di questo rapporto di amicizia il poeta la diede con la XIV lettera, scritta il 1 dicembre 1366 a seguito della morte di Bonsembiante.

    « (...) Raro amor di fratelli, uguaglianza di statura, conformità di persona, età per poco diversa, medesimezza di stato, di ordine, di professione, d’ingegno; la stessa veste, le maniere, i costumi stessi, splendore in entrambi di dottrina, e comune ad ambedue decoro di magistero, vi fecero obbietto alla lode, all’amore, all’ammirazione di tutti, che due personaggi siffatti stimavan valere perché fratelli più che altri quattro sebbene valenti al par di loro (…) »
   

Nel 1368 e nel 1373 è documentato che Bonaventura Badoer Peraga fu a Padova come “Professore della sacra pagina” (Doctoris Sacrae Paginae) e presente presso il monastero degli Eremitani. Il 27 ottobre 1373 fu l’esecutore testamentario del parente Zanino (Giovannino) Peraga che gli richiedeva di essere sepolto nella tomba di famiglia nella Chiesa del monastero.

L'alta amicizia e il prestigio di Bonaventura lo portarono, l’anno dopo, 1374, ad essere scelto, tra tutti i dottori di Padova, per tessere l’elogio funebre di Francesco Petrarca.

Ecco in quali termini narra Andrea de Gataris (Chronicon Patavinum ANDREAE DE GATARIS in Rerum Italicarum Scriptores, Mediolani 1730, vol. XVII, col. 214.) il doloroso avvenimento:

    « Appresso agli altri danni della nostra città di Padova occorse nel detto millesimo (1374) alli 19 di luglio, che passò di questa vita il famoso e laureato Poeta Messer Francesco Petrarca, il quale era arciprete del Duomo di Padova, e morì nella villa d’Arquà et al suo esequio andò il Signor Messer Francesco da Carrara, e i Rettori dello studio, et Università degli scolari di Padova. Et il corpo suo fu portato da sedici Dottori coperto di panno d’oro con un baldacchino di panno d’oro foderato de vajo, con gran quantità di cera, con gran Chieresie di Padova, e del Padovano distretto. Vi vennero il Vescovo di Vicenza, quello di Verona, e quello di Treviso con molti Prelati e chierici insieme, e fu messo il suo corpo nella Chiesa di Santa Maria d’Arquà. E fece il sermone Monsignore Messer Frà Bonaventura, che fu Cardinale, e pronunziò 24 Volumi di Libri composti per lo detto Francesco Petrarca. »

A seguito della conquista di Romania, Valacchia, Bulgaria, Serbia e Tracia da parte del sultano Murad I (o Amurat I) e degli appelli inascoltati dell’imperatore Giovanni V Palaeologo ai vari re e principi cristiani, il papa Gregorio XI, residente ad Avignone, con bolla papale del 26 ottobre 1375, incaricò Bonaventura in una missione diplomatica presso il re di Ungheria, Ludovico, per convincerlo ad entrare in guerra contro l’infedele. Ricevette solo promesse.

Nell'anno 1377 vennero indetti a Verona i “comizi generali dell’Ordine” degli Agostiniani. Vi parteciparono religiosi provenienti da tutta Europa che elessero (il 17 maggio 1377) all'unanimità Bonaventura Badoer Peraga a Priore Generale. 

Nel 1378 Bonaventura è a Roma quando il papa Gregorio XI rientra a San Pietro (accogliendo la supplica di Caterina da Siena) e muore. L’8 aprile 1378 fu eletto il 200º Papa, papa Urbano VI, Bartolomeo Prignano, vescovo di Bari.
 A seguito della rigidità imposta dal nuovo Papa, parte dei cardinali si appellarono al Diritto canonico e contestarono l’elezione. Dopo essersi ritirati ad Anagni e successivamente a Fondi elessero, il 20 settembre 1378, un altro Papa, Clemente VII, Roberto da Ginevra. Bonaventura sostenne, come peraltro fece Caterina da Siena, Urbano VI come unico papa e da questi venne nominato cardinale con altri ventisette, il 18 settembre 1378. Questa nomina lo porta ad essere esposto, primo tra tutti gli atri cardinali, a ripetute scomuniche da parte dell’Antipapa Clemente VII il quale arrivò a nominare un altro Priore Generale dell’Ordine di Sant'Agostino, un Maestro di Basilea, tale frate Giovanni Iltalinger, ma l’intero Ordine rimase fedele ad Urbano VI e Bonaventura continuò a governarlo attraverso i suoi fedeli Vicari: frate Filippo da Mantova e frate Nicola dell’Amatrice.
È discussa tra gli storici la veridicità di un importante viaggio che Bonaventura avrebbe fatto nel 1387, in qualità di Legato Pontificio, in Lituania quando avrebbe portato la benedizione papale al locale principe che sposando la cristiana Edvige, erede del regno di Polonia, decise di convertisi e di convertire tutta la nazione baltica.

Dopo essere tornato a Roma sembra (la questione è tuttora discussa tra gli storici) sia stato ucciso da sicari di Francesco Da Carrara, il Signore di Padova. Anche la data della morte è argomento di discussione ma sembra prevalere il 10 giugno 1389.

Lo stemma o arma araldica della famiglia Badoer Peraga, adottata dal Cardinale, era: “divisa per il lungo dello scudo in due parti eguali, la quale a sinistra di chi guarda ha tre ruote gialle, per il lungo di esso scudo in campo bigio (grigio), ed alla destra ha sei traversi, obliguamente posti, uno rosso e uno argento, comincia di sopra il rosso, e sopra li traversi è un leone rampante di color oro”.



 
 

Per la sua vita e per l’impegno profuso nella difesa della Chiesa cattolica durante le lotte del cosiddetto “Sisma d’occidente” Bonaventura Badoer Perara viene onorato dai devoti come beato e dal 1988 è stato inserito tra i santi della Diocesi di Padova che lo ricorda il 5 novembre.

Secondo però il Perini, pur documentando che Bonaventura Badoer Perara fu considerato, fin dal dal 1440, come beato richiama l’attenzione sul fatto che il suo libro fu scritto (1912) perché “non son pochi coloro che oggi ne desiderano glorificata la memoria dalla Suprema Autorità Apostolica col riconoscerne il culto prestatogli da tempo immemorabile”.



Per chi volesse approfondire ulteriormente, in questa pagina web è riportata l'intera biografia del Beato, scritta nel 1912.


testo da wikipedia, immagini da araldicavaticana.com

Pavimenti per le ginocchia




Un significativo articolo del veronese Mons. Marco Agostini, Cerimoniere Pontificio:
È impressionante la cura che l'architettura antica e moderna, fino alla metà del Novecento, riservò ai pavimenti delle chiese. Non solo mosaici e affreschi per le pareti, ma pittura in pietra, intarsi, tappeti marmorei anche per i pavimenti.

Mi sovviene il ricordo del variopinto "tessellatum" delle basiliche di San Zenone o dell'ipogeo di Santa Maria in Stelle a Verona, o di quello vasto e raffinato delle basiliche di Teodoro ad Aquileia, di Santa Maria a Grado, di San Marco a Venezia, o quello misterioso della cattedrale di Otranto. L'"opus tessulare" cosmatesco luccicante d'oro delle basiliche romane di Santa Maria Maggiore, San Giovanni in Laterano, San Clemente, San Lorenzo al Verano, di Santa Maria in Aracoeli, in Cosmedin, in Trastevere, o del complesso episcopale di Tuscania o della Cappella Sistina in Vaticano.

E ancora gli intarsi marmorei di Santo Stefano Rotondo, San Giorgio al Velabro, Santa Costanza, Sant'Agnese a Roma e della basilica di San Marco a Venezia, del battistero di San Giovanni e della chiesa di San Miniato al Monte a Firenze, o l'impareggiabile "opus sectile" del duomo di Siena, o le pelte marmoree bianche, nere e rosse in Sant'Anastasia a Verona o i pavimenti della cappella grande del vescovo Giberti o delle settecentesche cappelle della Madonna del Popolo e del Sacramento, sempre nel duomo veronese, e, soprattutto, lo stupefacente e prezioso tappeto lapideo della basilica vaticana di San Pietro.

In verità la cura per l'impiantito non è solo cristiana: sono emozionanti i pavimenti a mosaico delle ville greche di Olinto o di Pella in Macedonia, o dell'imperiale villa romana del Casale a Piazza Armerina in Sicilia, o quelli delle ville di Ostia o della casa del Fauno a Pompei o la preziosità delle scene del Nilo del santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina. Ma anche i pavimenti in "opus sectile" della curia senatoria nel Foro romano, i lacerti provenienti dalla basilica di Giunio Basso, sempre a Roma, o gli intarsi marmorei della "domus" di Amore e Psiche a Ostia.

La cura greca e romana per il pavimento non era evidente nei templi, ma nelle ville, nelle terme e negli altri ambienti pubblici dove la famiglia o la società civile si radunava. Anche il mosaico di Palestrina non era in un ambiente di culto in senso stretto. La cella del tempio pagano era abitata solo dalla statua del dio e il culto avveniva all'esterno innanzi al tempio, attorno all'ara sacrificale. Per tale ragione gli interni non erano quasi mai decorati.

Il culto cristiano è, invece, un culto interiore. Istituito nella stanza bella del cenacolo, ornata di tappeti al piano superiore di una casa di amici, e propagatosi inizialmente nell'intimo del focolare domestico, nella "domus ecclesiae", quando il culto cristiano assunse dimensione pubblica trasformò la casa in chiesa. La basilica di San Martino ai Monti sorge sopra una "domus ecclesiae", e non è la sola. Le chiese non furono mai il luogo di un simulacro, ma la casa di Dio tra gli uomini, il tabernacolo della reale presenza di Cristo nel santissimo sacramento, la casa comune della famiglia cristiana. Anche il più umile dei cristiani, il più povero, come membro del corpo mistico di Cristo che è la Chiesa, in chiesa era a casa e signore: calpestava pavimenti preziosi, godeva dei mosaici e degli affreschi delle pareti, dei dipinti sugli altari, odorava il profumo dell'incenso, sentiva la gioia della musica e del canto, vedeva lo splendore degli ornamenti indossati a gloria di Dio, gustava il dono ineffabile dell'eucaristia che gli veniva amministrata in calici d'oro, si muoveva processionalmente sentendosi parte dell'ordine che è anima del mondo.

I pavimenti delle chiese, lontani dall'essere ostentazione di lusso, oltre a costituire il piano di calpestio avevano anche altre funzioni. Sicuramente non erano fatti per essere coperti dai banchi, questi ultimi introdotti in età relativamente recente allorquando si pensò di disporre le navate delle chiese all'ascolto comodo di lunghi sermoni. I pavimenti delle chiese dovevano essere ben visibili: conservano nelle figurazioni, negli intrecci geometrici, nella simbologia dei colori la mistagogia cristiana, le direzioni processionali della liturgia. Sono un monumento al fondamento, alle radici.

Questi pavimenti sono principalmente per coloro che la liturgia la vivono e in essa si muovono, sono per coloro che si inginocchiano innanzi all'epifania di Cristo. L'inginocchiarsi è la risposta all'epifania donata per grazia a una singola persona. Colui che è colpito dal bagliore della visione si prostra a terra e da lì vede più di tutti quelli che gli sono rimasti attorno in piedi. Costoro, adorando, o riconoscendosi peccatori, vedono riflessi nelle pietre preziose, nelle tessere d'oro di cui talvolta sono composti i pavimenti antichi, la luce del mistero che rifulge dall'altare e la grandezza della misericordia divina.

Pensare che quei pavimenti così belli sono fatti per le ginocchia dei fedeli è commovente: un tappeto di pietra perenne per la preghiera cristiana, per l'umiltà; un tappeto per ricchi e poveri indistintamente, un tappeto per farisei e pubblicani, ma che soprattutto questi ultimi sanno apprezzare.

Oggi gli inginocchiatoi sono scomparsi da molte chiese e si tende a rimuovere le balaustre alle quali ci si poteva accostare alla comunione in ginocchio. Eppure nel Nuovo Testamento il gesto dell'inginocchiarsi si presenta ogni qualvolta a un uomo appare la divinità di Cristo: si pensi ai Magi, al cieco nato, all'unzione di Betania, alla Maddalena nel giardino il mattino di Pasqua.

Gesù stesso disse a Satana, che gli voleva imporre una genuflessione sbagliata, che solo a Dio si devono piegare le ginocchia. Satana sollecita ancora oggi a scegliere tra Dio o il potere, Dio o la ricchezza, e tenta ancora più in profondità. Ma così non si renderà gloria a Dio per nulla; le ginocchia si piegheranno a coloro che il potere l'hanno favorito, a coloro ai quali si è legato il cuore attraverso un atto.

Buon esercizio di allenamento per vincere l'idolatria nella vita è tornare a inginocchiarsi nella messa, peraltro uno dei modi di "actuosa participatio" di cui parla l'ultimo Concilio. La pratica è utile anche per accorgersi della bellezza dei pavimenti (almeno di quelli antichi) delle nostre chiese. Davanti ad alcuni verrebbe da togliersi le scarpe come fece Mosè davanti a Dio che gli parlava dal roveto ardente.



da chiesa.espresso.repubblica.it via ministrantimdg.blogspot.com. Titolo originale: "INGINOCCHIATOI DI PIETRA" 

immagini da Corbis, g.immage.
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