Uno sguardo veneto sulla Liturgia, musica e arte sacra, le attualità romane e le novità dalle terre della Serenissima.
Sul solco della continuità alla luce della Tradizione.

La corsa alla Cattedra marciana: parla Mons. Pizziol

di Paolo Fusca (per Gente Veneta, n.38/2011)
Nostalgia? Nostalgia no... C'è invece la gioia di tornare in una diocesi e un territorio che ho sempre amato e per il quale mi sono speso. L'idea di poter dare un ulteriore contributo, anche se mi costa fatica, genera in me un senso di gioia cristiana. Torno volentieri, sto volentieri con i miei preti, i miei fedeli. E' un peso, certo, che fosse dipeso da me non avrei assunto in questo momento. Ma so che favorisce quella condivisione tra diocesi, tra Chiese sorelle, verso cui ci porta anche il secondo Convegno di Aquileia. L'ho fatto capire anche ai miei vicentini, che potevano essere gelosi...». Mons. Beniamino Pizziol è di nuovo nella piccola sala del Centro card. Urbani di Zelarino che utilizzava anche come vicario generale prima, come vescovo ausiliare poi, per le sue udienze in Terraferma. Al mattino aveva incontrato il Consiglio di Curia con i quattro delegati (già vicari episcopali), il Moderator Curiae e i vicari e provicari foranei. «Abbiamo impostato la prosposta pastorale 2011-2012», spiega. E il messaggio è chiaro: il Patriarcato di Venezia non è in vacanza, la pastorale andrà avanti a pieno ritmo. Anche in vista di un appuntamento – Aquileia 2 – che terrà deste tutte le diocesi del Triveneto.
«Vorrei che continuasse la vita ordinaria delle parrocchie, dei vicariati, della diocesi, dopo la conclusione della Visita pastorale, autorevolmente interpretata dal Papa», spiega l'Amministratore apostolico. «Ogni anno pastorale ha una sua intelaiatura che è sempre esistita da quando sono nate le comunità cristiane, costituita dall'anno liturgico. Il quale ha il suo culmine nella Pasqua (che quest'anno cade l'8 aprile) con tutte le realtà che da lì scaturiscono: le altre feste dell'anno liturgico e i sacramenti».
Altri aspetti della vita ordinaria della Chiesa non verranno a mancare: «C'è tutto il compito educativo e formativo dei bambini, dei ragazzi, dei giovani, delle famiglie, degli adulti, che noi siamo stati abituati a chiamare “educazione al pensiero di Cristo”. E l'aspetto del gratuito, che si manifesta nella solidarietà, nell'attenzione a tutti gli uomini, a tutto l'uomo, in particolare ai più deboli e meno garantiti. Per finire con la testimonianza della nostra fede a livello missionario, in tutti gli ambiti e gli ambienti dell'umana esistenza. Sono gli ambiti tradizionali dei sacramenti, della Parola e della comunità, con in più un'accentuazione dell'aspetto della testimonianza, anche nella vita sociale e civile, sia come singoli che come comunità, privilegiando i corpi intermedi: la famiglia, la scuola, il territorio, l'associazionismo...». Insomma, le quattro finalità della Visita pastorale, o le dimensioni fondamentali della vita cristiana, che il Patriarca Scola ha insegnato a riconoscere.
Il messaggio è chiaro: «L'anno pastorale va avanti regolarmente, tutto continua come prima», puntualizza mons. Pizziol. «E' stato chiesto, vista l'assenza del vescovo, un supplemento di corresponsabilità agli organismi di comunione; e lo stesso viene chiesto a tutti i battezzati della diocesi veneziana».
Solo due organismi di partecipazione sospendono temporaneamente il loro lavoro, finché non arriverà il nuovo patriarca: il consiglio presbiterale e quello pastorale. L'amministratore apostolico ha “tutte le facoltà, i diritti e i doveri dei vescovi diocesani”. E' con questi poteri che mons. Pizziol ha rinnovato le deleghe a una serie di collaboratori, per garantire l'ordinarietà della vita diocesana (si veda GV n. 36). Al nuovo vescovo l'amministratore apostolico rimette le decisioni riguardanti nomine e cambi di parroci; sempre che non si creino situazioni di emergenza che richiedano un suo intrevento.
La presenza dell'Amministratore apostolico a Venezia non sarà episodica. Ogni mercoledì sarà presente per riunioni e udienze. Ma l'agenda è già piena per una serie di altri appuntamenti: venerdì scorso ha celebrato il Mandato, il 6 ottobre terrà in Cattedrale la consueta istruzione al clero all'inizio del nuovo anno pastorale, il 15 ottobre aprirà il nuovo anno della Scuola di Metodo, il 22 ottobre presiederà le ordinazioni diaconali di tre giovani del nostro seminario.
Circa le numerose anticipazioni pubblicate dai giornali sui “patriarcabili”, mons. Pizziol non si stupisce più di tanto: «La figura del vescovo ha anche una sua rilevanza sociale: è ovvio che i media se ne interessino. Mi auguro piuttosto che tutti gli organismi preposti alla scelta del vescovo mantengano il riserbo, in modo che si arrivi alla nomina senza chiacchiere e tormentoni, scommesse e “toto-patriarca”». Tanto più che la ridda di voci che già circola è alquanto prematura, se si pensa che la consultazione – a detta di quanti ne sono sicuramente i destinatari – non è ancora iniziata...
Mons. Pizziol avrà anche l'incarico di proseguire l'iter che porterà alla costruzione di un'opera di educazione al gratuito, al termine della Visita pastorale, grazie anche ai fondi lasciati dal Patriarca e quelli frutto del dono che la diocesi ha fatto al card. Scola alla sua partenza. A questo fine è stata coinvolta la Caritas veneziana. «La decisione ultima, però», chiarisce mons. Pizziol, «spetterà al nuovo patriarca».


La cera per l'altare: dall'utilità, al simbolo


Sembra che i primi esempi di uso liturgico delle candele possano essere ricondotti al V secolo dell'era cristiana. Da quel momento in poi l'utilizzo delle medesime è ininterrotto.
Possiamo probabilmente individuare in questa pratica anche un aspetto pratico, cioè quello di illuminare la zona dell'altare, che non sempre è ben illuminato dalla luce solare (nel romanico, per esempio, l'architettura stessa porta a ridurre alquanto gli spazi finestrati, da cui la penombra che avvolgeva – prima dell'utilizzo della luce elettrica – le chiese edificate in detto stile). Questa prospettiva è oggi venuta meno; tuttavia, rimane decisiva l'importanza simbolica dell'uso delle candele. Queste, in genere, sono – o dovrebbero – essere fatte di cera (questa prescrizione è particolarmente sottolineata nella forma extra-ordinaria del rito romano, nota 1). Essa è prodotta dalle api, che sin dall'età protocristiana, sono ritenute simbolo della verginità, dato che si riteneva esse si riproducessero senza bisogno di fecondazione (nota 2). Un vago rimando è rimasto in uno dei testi più antichi della liturgia, l'Exultet della Veglia Pasquale (nota 3).

Ma approfondiamo questi aspetti simbolici affidandoci all'autorevole voce di dom Prosper Guéranger: “Secondo sant'Ivo di Chartres la cera delle candele, formata a partire dal nettare dei fiori dalle api, che l'antichità ha sempre considerato come un simbolo della verginità, significa la verginal carne del divin Bambino, il quale non ha alterato, né col concepimento né con la nascita, l'integrità di Maria. Nella fiamma del cero, il santo Vescovo ci insegna a vedere il simbolo di Cristo che è venuto a illuminare le nostre tenebre. Sant'Anselmo, nelle sue Narrazioni su san Luca ci ha detto che ci sono tre cose da tenere in considerazione nel cero: la cera, lo stoppino e la fiamma. La cera, afferma, opera dell'ape vergine, è la carne di Cristo; lo stoppino, che è posto all'interno, è la [Sua] anima, la fiamma, che brilla nella parte superiore, è la [Sua] divinità.” (nota 4)


(nota 1) Per esempio, nel De Defectibus del Missale Romanum, al cap. X tra i difetti possibili in cui può incorrere il ministro stesso, è indicato “non adsint luminaria cerea”, (non ci siano candele in cera). Il decreto 4147 del 14 dicembre 1904 della Sacra Rituum Congregatio chiarì che per “cera” si doveva intendere cera naturale di api, anche se non è richiesto che tutta la candela sia totalmente (100%) di questo materiale. Cfr. Ludovico Trimeloni, Compendio di liturgia pratica, Milano, Marietti 1820, ristampa 2007, p. 296.
(nota 2) Quest'idea è diffusa già in età romana e richiamata spesso in epoca patristica. Sant'Ambrogio afferma a proposito delle api che “Communis omnibus generatio, integritas quoque corporis virginalis omnibus communis et patrus; quoniam neque inter se sullo concubitu miscentur, nec libidine resolvuntur, nec partus quatiuntur doloribus, et subito maximum filiorum examen emittunt” (Exameron, cap. XXI, 67 in PL 14, 248). In merito, cfr. Brian Stock, The Implications of Literacy: Written Language and Models of Interpretation in the Eleventh and Twelfth Centuries, Princeton, Princeton University Press, 1987, pp. 102-103.
(nota 3) In esso si parla di “[...] ceris, quas in substantiam pretiosæ huius lampadis apis mater eduxit” (cera che l'ape feconda ha prodotto come sostanza per questo cero prezioso).
(nota 4) “Selon saint Ives de Chartres [...] la cire des cierges, formée du suc des fleurs par les abeilles, que l'antiquité a toujours considérées comme un type de la virginité, signifie la chair virginale du divin Enfant, lequel n'a point altéré, dans sa conception ni dans sa naissance, l'intégrité de Marie. Dans la flamme du cierge, le saint Evêque nous apprend à voir le symbole du Christ qui est venu illuminer nos ténèbres. Saint Anselme, dans ses Enarrations sur saint Luc [...] nous dit qu'il y a trois choses à considérer dans le Cierge : la cire, la mèche et la flamme. La cire, dit-il, ouvrage de l'abeille virginale, est la chair du Christ ; la mèche, qui est intérieure, est l'âme ; la flamme, qui brille en la partie supérieure, est la divinité.” (Dom Prosper Guéranger, L'Année liturgique, La purification de la Très Sainte Vierge)

Benedetto si dimette?



Il Papa pensa di dimettersi tra sei mesi. Così, almeno, dice Antonio Socci, autorevole giornalista e scrittore cattolico, che ha avuto occasione di incontrare Benedetto XVI da cardinale, che ne conosce bene il pensiero, e che tutto vorrebbe tranne che si dimettesse. Eppure, con tutte le cautele del caso, ieri Socci ha sbattuto la notizia in prima pagina: «Per ora è una voce (un’ipotesi personale di Joseph Ratzinger) e spero che non diventi mai una notizia. Ma poiché circola nelle più importanti stanze del Vaticano merita molta attenzione. In breve: il Papa non scarta la possibilità di dimettersi allo scoccare dei suoi 85 anni, ovvero nell’aprile del prossimo anno».
Ratzinger è uomo che sa sorprendere, come ha fatto ieri nel suo discorso sulla «demondanizzazione» della Chiesa, come ha dimostrato con la sua azione contro gli abusi sessuali e i casi di pedofilia del clero cattolico; ma la sorpresa ieri è durata lo spazio di un mattino. Il tempo di una domanda al direttore della Sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi: «Se lo dice Socci - ha risposto -, bisogna chiedere a lui da dove l’ha saputo, perché io non ne sono informato. Quello che sappiamo tutti è quello che ha scritto il Papa nel suo libro Luce del mondo e oltre a questo io non ho altre informazioni». Il Papa nel libro-intervista con Peter Seewald, come ricordato anche da Socci, affermava che «quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, psicologicamente e mentalmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto e in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi». Ma, dice padre Lombardi, non pare questo il caso di Benedetto XVI: «La forza e la resistenza che ha dimostrato in questo viaggio di per sé mi sembra molto eloquente sulla sua capacità di continuare ad affrontare impegni anche molto gravosi. Il Papa sta molto bene e sta superando bene un viaggio così intenso». D’altronde, chi l’ha visto imperterrito e sorridente sotto il nubrifagio che ha sconvolto Madrid durante la Giornata mondiale della gioventù non ha ha l’impressione di un uomo fisicamente debole. E chi ha ascoltato il suo discorso al Bundestag non può certamente dedurne un affievolimento delle capacità mentali.
Quello di Socci sembra dunque restare un classico caso di scuola, alimentato forse dalle parole, non sempre diplomaticamente accorte, del fratello del Pontefice, il quale ha recentemente pubblicato per l’editore bavarese Herbig Verlang un libro di memorie, Mio fratello, il Papa.
In questa occasione, l'ottantasettenne Georg ha rilasciato alcune interviste, tra cui una la settimana scorsa a un sito inglese, nella quale, tra l’altro, ribadiva: per come lo conosco, mio fratello, se fosse malato e pensasse di non farcela più, sarebbe capace di dimettersi. Sapendo che i due, non è un mistero, si telefonano spesso, il pensiero che Georg stesse riportando una confidenza del fratello è plausibile. Ma così non è, Benedetto XVI, al momento non sta meditando di sorprendere il mondo con le sue dimissioni.
La sorpresa, piuttosto, c’è stata ieri a Friburgo, dove, parlando della sempre necessaria riforma della Chiesa, il Papa ha detto che «per compiere la sua missione, essa prenderà continuamente le distanze dal suo ambiente, deve, per così dire, essere “demondanizzata”».
Ora, c’è chi tirerà questo discorso a destra e chi a sinistra, Benedetto XVI, per parte sua continua a tirare dritto. Anche perché la storia, per il Papa, non succede invano. Quando sembra avversa, quindi «in un certo senso, la storia viene in aiuto alla Chiesa attraverso le diverse epoche di secolarizzazione, che (...) - fossero esse l’espropriazione di beni della Chiesa o la cancellazione di privilegi o cose simili - significarono ogni volta una profonda liberazione della Chiesa da forme di mondanità: essa si spogliava, per così dire, della sua ricchezza terrena e tornava ad abbracciare pienamente la sua povertà terrena».
Il Papa tedesco mostra ancora una volta di essere un uomo intellettualmente libero e moralmente esigente, innanzitutto con se stesso e con i cattolici: «Gli esempi storici mostrano che la testimonianza missionaria di una Chiesa “demondanizzata” emerge in modo più chiaro. Liberata dal suo fardello materiale e politico, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero».
Non sembra il programma di uno che vuole dimettersi.
 immagine Daylife

La Chiesa, Mistero grande e bello


"Alcuni guardano la Chiesa fermandosi al suo aspetto esteriore. Allora la Chiesa appare solo come una delle tante organizzazioni in una società democratica, secondo le cui norme e leggi, poi, deve essere giudicata e trattata anche una figura così difficile da comprendere come la “Chiesa”. Se poi si aggiunge ancora l'esperienza dolorosa che nella Chiesa ci sono pesci buoni e cattivi, grano e zizzania, e se lo sguardo resta fisso sulle cose negative, allora non si schiude più il mistero grande e bello della Chiesa."

Quindi, non sorge più alcuna gioia per il fatto di appartenere a questa vite che è la “Chiesa”. Insoddisfazione e malcontento vanno diffondendosi, se non si vedono realizzate le proprie idee superficiali ed erronee di “Chiesa” e i propri “sogni di Chiesa”! Allora cessa anche il lieto canto “Sono grato al Signore, che per grazia mi ha chiamato nella sua Chiesa”, che generazioni di cattolici hanno cantato con convinzione."

"Con la Chiesa e nella Chiesa possiamo annunciare a tutti gli uomini che Cristo è la fonte della vita, che Egli è presente, che Egli è la grande realtà che cerchiamo e a cui aneliamo. Egli dona se stesso e così ci dona Dio, la felicità, l’amore. Chi crede in Cristo, ha un futuro. Perché Dio non vuole ciò che è arido, morto, artificiale, che alla fine è gettato via, ma vuole ciò che è fecondo e vivo, la vita in abbondanza, e Lui ci dà la vita in abbondanza."

Papa Benedetto XVI
Olympiastadion di Berlino, 22 settembre 2011, Omelia alla Celebrazione Eucaristica

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Sopravvissuta all'aborto, muore a cinque anni



Il dramma dell'aborto si ripete ogni giorno, nelle cliniche ospitaliere delle nostre città. Quest'oggi è comparsa tra le pagine dei quotidiani la tremenda storia di Mariangela, bambina padovana sopravvissuta ad un parto prematuro provocato come tecnica abortiva e morta a cinque anni a causa di una broncopolmonite. Tornata al Signore tra l'amore di una famiglia adottiva, ha vinto la morte quando rifiutata, tra i corridoi dell'ospedale di Padova. Usciamo dalle solite righe per proporvi l'ennesima cruenta storia d'aborto, per ribadire: no all'aborto!

Ha lottato per cinque anni la piccola Mariangela. Tenacemente attaccata alla vita: sopravvissuta a un aborto, minata da gravi problemi respiratori e senza occhi, era stata affidata a una casa famiglia perchè i genitori non avevano voluto riconoscerla. Alla fine, una broncopolmonite recidiva l’altro giorno se l’è portata via. E Mariangela, la bimba padovana che non avrebbe dovuto nascere, se n’è andata per sempre, lasciando un grande dolore tra le persone che in questi anni si sono occupati di lei, accudendola giorno e notte. «Vivace, affettuosa, regalava grandi sorrisi, ci ha dato molta felicità », così la ricordano i genitori affidatari della comunità Papa Giovanni XXIII, nel padovano, l’associazione fondata da don Oreste Benzi.
Mariangela, cinque anni fa, all’ospedale di Padova, era sopravvissuta a un parto prematuro indotto a 22 settimane, utilizzato come tecnica abortiva. I genitori naturali avevano scelto questa forma abortiva dopo che l’ecografia aveva rivelato che la bimba era senza bulbi oculari. Ma la piccola «guerriera», nonostante pesasse solo 562 grammi e fosse destinata a morte certa, ha continuato a vivere. Arrivata a un mese di vita fu presa in carico dal reparto padovano di neonatologia, dopo che i genitori rifiutarono di riconoscerla. In seguito fu affidata alla Comunità Papa Giovanni XXIII e accolta da una casa famiglia dove è stata cresciuta per cinque anni, fino all’attacco di broncopolmonite che l’altro giorno ne ha causato la morte. «La tecnica dell’aborto terapeutico inflitta a Mariangela viene praticata spesso in Italia - rivela Enrico Masini, responsabile del servizio Maternità difficile e Vita della Comunità Papa Giovanni XXIII - . Non è di dominio pubblico, ma l’aborto in alcuni ospedali viene fatto anche fino alla 25˚ settimana di gestazione.
Il caso di Mariangela è legato all’umanità del personale medico dell’Ospedale di Padova, che si è battuto per dare alla bimba la possibilità di vivere e di avere una famiglia». E i genitori affidatari, che avevano già dei figli naturali, nonostante le gravi condizioni di salute della piccola (spesso ha dovuto essere ricoverata in ospedale), l’hanno amata, accolta e accudita, giorno e notte, per cinque anni. I responsabili della Comunità fanno sapere che «è profondo il dolore per la perdita di Mariangela. Resta il ricordo dolce di questi anni vissuti insieme e delle molte gioie che la piccola, con i suoi sorrisi, sapeva regalarci. La piccina ha potuto comunque assaporare la gioia di amare ed essere amata per ciò che era». E restano anche questi cinque anni, in cui la bambina non ha voluto mollare mai, coraggiosa e combattiva, nonostante i molti handicap. Decisa a resistere, con la voglia di andare avanti. I funerali di Mariangela si svolgeranno mercoledì 21 settembre in forma privata.

Francesca Visentin (per Il Corriere del Veneto)

La corsa alla Cattedra marciana: Moraglia in testa, compare Ambrosio


Compare ancora il nome di Monsignor Francesco Moraglia nella rosa di nomi per la sostituzione del cardinale Angelo Scola, ex patriarca di Venezia e nuovo Arcivescovo di Milano.
Il nome di Monsignor Moraglia incontrerebbe il favore del card. Mauro Piacenza, che guida la Congregazione vaticana per il Clero. Tra i nomi spunta anche quello di Gianni Ambrosio, classe 1943, nato a Santhia' (Vercelli), studi a Parigi e alla Lateranense. Il suo nome era circolato anche per Milano. A consacrarlo vescovo di Piacenza nel 2008 fu proprio Bertone, che in passato era stato per diversi anni suo vescovo a Vercelli. E al quale ora, sembra non dispiacerebbe vederlo Patriarca.
Redazione di CDS news




La cera per l'altare: la Sacra Scrittura


Entriamo in una delle ancor numerose chiese cattoliche che ricoprono, come un candido manto (per riprendere una celebre espressione di Rodolfo il Glabro), la superficie dell'orbe cattolico. C'avviciniamo all'acquasantiera, intingiamo le dita e, inginocchiati verso il tabernacolo del Santissimo Sacramento, ci facciamo devotamente un segno di croce, chiedendo perdono delle nostre colpe. Se non conosciamo l'edificio, cominciamo allora a guardarci attorno, un po' curiosi. Tra le strutture che per prime attirano la nostra attenzione c'è il tabernacolo, c'è l'altare. Nei pressi di entrambi notiamo in genere qualcosa di particolare: le candele. Vicino alla custodia che contiene il Sacratissimo Corpo del Nostro Redentore, infatti, arde continuamente una lampada, per ricordare ai fedeli che là è realmente presente il Re dei Re. Sull'altare, poi, troviamo in genere un paio di candele, che al di fuori delle celebrazioni liturgiche sono spente. Non di rado può accadere di scorgere, sul vecchio altar maggiore, alti e preziosi candelabri raramente utilizzati, mentre quelli presenti sull'altare sono piccolini e, diciamolo pure, anche un pochino miseri.

La mentalità moderna, chiusa nel suo immanentismo e talvolta incapace di guardare al di là di un misero pragmatismo, potrebbe obiettare che le chiese sono piene di luci: a che servono dunque le candele? Rimasugli di Medioevo? Attaccamento romantico sentimentalistico ad usi passati? Può anche essere – ma speriamo non sia così – che simili pensieri si accavallino pure nelle menti dei fedeli e persino dei sacerdoti stessi. Certo, le norme liturgiche sono chiare: le candele sono necessarie, non facoltative. Prima di toccare quest'aspetto, propriamente giuridico, può essere però utile indagare un po' la storia e le funzioni delle candele nella Sacra Liturgia.

Nella Sacra Scrittura troviamo numerosi riferimenti ai candelabri: quello dorato con sette lampade che Dio ordina a Mosè di fabbricare (Es 25, 31-40) e di collocare nella Tenda (Es 26, 35; 40, 4; 40, 24); esso veniva alimentato con puro olio d'oliva e doveva perennemente ardere durante la notte (Es 27, 20; Lv 24, 2-4); doveva poi essere unto con l'olio per l'unzione sacra (Es 30, 27) per consacrarlo. Fu modellato da Bezaleel, (Es 31, 2. 8) assieme ad Ooliab (Es 31, 6. 8) ed altri artisti (Es 35, 10. 14), cui il Signore aveva infuso saggezza (Es 31, 6) affinché eseguissero bene i lavori loro richiesti. Il modello stesso era stato mostrato dal Signore a Mosé (Nm 8, 4); né Mosè mostrò alcuna tirchieria, nonostante il popolo errante nel deserto non dovesse certo traboccare di ricchezze: impiegò infatti per realizzarlo un talento d'oro puro (Es 37, 24), cioè circa 30-35 chili. Durante gli spostamenti, in segno d'onore e di rispetto, esso veniva coperto con un drappo di porpora viola e avvolto in pelli di tasso (Nm 4, 10-11) prima di trasportarlo in portantina.

Nel tempio di Gerusalemme, invece, Salomone fece realizzare dieci candelabri d'oro da porsi nell'aula di fronte al Sancta Sanctorum: cinque sul lato settentrionale e cinque sul lato meridionale (1 Re 7, 49; 2 Cr 4, 7)). L'oro necessario era già stato messo da parte da Davide (1 Cr 28, 15).

Si potrà obiettare che la predicazione di Cristo abbia cancellato tutto questo. Ora, è senz'altro vero che la Chiesa “crede fermamente, conferma e insegna che le prescrizioni legali dell'antico Testamento, cioè della legge mosaica, che si dividono in cerimonie, santi sacrifici e sacramenti proprio perché istituite per significare qualche cosa di futuro, benché fossero adeguate al culto divino in quella età, venuto, però, Nostro Signore Gesù Cristo, da esse significato, sono cessate e sono cominciata i sacramenti della nuova alleanza.” (Concilio di Basilea-Ferrara-Firenze, Sessione XI del febbraio 1442, trad. da qui: http://www.totustuustools.net/concili/basilea.htm) Tuttavia, il significato profondo di quelle cerimonie non viene meno: esse volevano rendere visibile l'amore e l'attenzione che il popolo d'Israele riponeva verso il culto divino. Il fatto che Nostro Signore abbia richiamato, con la Sua predicazione, la necessità e la priorità del culto interno, che proviene dall'anima, non significa che Egli abbia tolto qualsiasi validità agli atti esterni di culto. Scorrendo i Vangeli, niente lascia presagire questo.

Bellezza, veritatis splendor

Venezia, Chiesa di San Giacomo dall'Orio, particolare

di Paolo Facciotto (per La voce di Romagna)

A partire dal suo libro “Ministero della bellezza” sul sacerdozio cattolico, abbiamo parlato con don Francesco Ventorino, 79 anni, di un aspetto in questi giorni emerso con evidenza al Meeting, il rapporto e il dialogo con persone di fedi religiose diverse.


Don Ventorino, che cosa è la bellezza?
La bellezza secondo una definizione che risale ai medievali, è lo splendore del vero: quando l’invisibile, il Mistero, si rende visibile in ciò che l’uomo può vedere e toccare, ascoltare, e per questo lo seduce, lo convince, perché lo afferra secondo la modalità che è propria dell’uomo, attraverso l’esperienza. La bellezza rende credibile il vero e il bene perché splende talmente dell’umanità di qualcuno, da convincere. Per questo io parlo del sacerdozio come ministero della bellezza, perché il prete come ha ricordato recentemente Benedetto XVI alla fine dell’anno sacerdotale non è appena un ufficio. Il sacerdozio è sacramento, significa qualcosa di visibile che contiene l’invisibile, non è un simbolo. E’ qualcosa di visibile, come l’eucaristia: si vede il pane e il vino ma non è un simbolo, non rinvia a qualcosa che è fuori di essa ma a qualcosa di presente. Il prete nella sua umanità deve rendere visibile il volto del Padre, altro che ufficio, altro che amministrazione di uffici e di sacramenti: è lui stesso il sacramento. In questo senso parlo di ministero della bellezza: il prete ha questo compito innanzitutto, di rendere nella propria umanità visibile e credibile il volto del Mistero».


E’ coraggioso legare bellezza e sacerdozio tanto più dopo l’emergere di tanti scandali, proprio mentre il Papa lo rilanciava, con l’anno sacerdotale, come questione centrale della Chiesa. Come è potuto succedere che il sacerdozio non sia crollato sotto i colpi di quasi tutti i poteri del mondo?
«Alla campagna scandalistica si può rispondere giornalisticamente, colpo contro colpo, ma i colpi acuti o meno acuti si equivalgono perché è tutto sul piano mediatico. Invece quando il prete vive il ministero della bellezza crea nel rapporto che ha con la gente una certezza che non può essere minata dallo scandalo mediatico. La certezza morale è quella per la quale un uomo si può fidare di un altro uomo. Si acquista nel rapporto, e nessuno scandalo mediatico può metterla in crisi. Come la certezza che io ho di mia madre, basata sul rapporto personale che ho avuto con lei, nel quale matura una certezza di affidabilità, di credibilità che è intangibile a ogni altro argomento. Questa è la certezza della fede. All’inizio di “Si può vivere così”, Giussani dice che la fede è una certezza fondata sulla fiducia in un altro, non ha nulla da invidiare alle altre certezze - scientifica, filosofica eccetera. Non è meno certa, anzi, queste sono le certezze più certe senza le quali l’uomo non potrebbe neanche vivere. Di fatto gli scandali mediatici hanno messo in crisi il rapporto ministeriale laddove era già in crisi, dove la gente sospettava del prete, ma dove la gente ha acquisito questa certezza morale rispetto al prete, non è stata messa in crisi. Ditemi un oratorio che ha dovuto chiudere in forza degli scandali mediatici: la gente continua a mandare i bambini all’oratorio perché conosce il parroco, il viceparroco, di quelli sa che si può fidare. La migliore risposta allo scandalo è la bellezza ministeriale del prete, perché è quello che convince».


Quando si può dire che una chiesa è bella?
«Se la bellezza è lo splendore dell’invisibile, del Mistero, una chiesa è bella quando in quel luogo ci si avvicina di più al Mistero. Ma il Mistero in Gesù ha preso un volto, e quindi la chiesa tanto più è bella quanto più mi avvicina al Mistero cristiano, cioè al Mistero di Dio come Padre, come Figlio morto, crocifisso e risorto, come Spirito che vivifica e santifica. Voglio fare un esempio tra le chiese moderne, che sono le più discutibili: io vado spesso in Terrasanta e lì ci sono delle chiese costruite nel Novecento, le ha costruite un certo Barluzzi, un terziario francescano, architetto. Era un uomo di fede. Il suo capolavoro è la chiesa del Getsemani: basta entrare in quella chiesa e si soffre l’agonia di Cristo, anche attraverso le vetrate che fanno penetrare la luce ma fino a un certo punto, quindi si crea una zona di oscurità… Proprio come quel momento di sofferenza di Cristo in cui l’oscurità sembrava prevalere sulla luce della sua conoscenza di Figlio. Qui il Mistero ha preso forma visibile e aiuta l’uomo a credere».


Il ministero della bellezza mette in gioco un’altra questione rilanciata con forza da Papa Ratzinger: la liturgia. “Nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa”, ha scritto. Come giudica il motu proprio del 2007? Come si vive nel movimento la liturgia?
«Il Papa con questo motu proprio aveva inanzitutto l’intenzione, appunto, di restituire alla liturgia la sua bellezza originaria, perché non possiamo negare che c’è stata una degradazione formale nelle celebrazioni liturgiche che ha preso due volti. Lo spontaneismo, e invece non c’è nulla di più bello della formula stabilita, quindi quando il prete spontaneamente inventa formule credendo di dire cose più vere, più efficaci, si sbaglia, perché nella formula è sedimentata una sapienza pedagogica e teologica della Chiesa che viene dagli inizi. Il Papa ha voluto restituire la bellezza nel senso di restituzione di un rigore dell’osservanza delle formule liturgiche. Dall’altro lato, un richiamo appunto ad una bellezza che abbracci anche tutti gli altri aspetti, per esempio la musica: le musiche che sono prevalse dopo il Concilio, appunto per una pretesa di esprimere di più il sentimento di popolo anziché il Mistero, sono degradate, anche dal punto di vista artistico. Poi da parte del Papa c’è stata una preoccupazione di unità nella Chiesa: ci sono stati dei movimenti che vedendo la degenerazione che hanno preso certe forme post-conciliari, per reazione si sono aggrappati alla formula precedente al Concilio. Il Papa ha voluto che non si facesse della liturgia un terreno di scontro e di scomuniche vicendevoli. Un altro punto, la liturgia come pedagogia efficace della vita cristiana, della fede. C’è una formula che dice che “lex credendi est lex vivendi”, o “lex orandi est lex credendi” e poi “lex vivendi”: ciò che si prega è ciò che si crede, ciò che si crede è ciò che si vive, quindi è importante sorvegliare sulla liturgia perché la liturgia esprime ciò che si crede. Il movimento su questo non ha avuto una preoccupazione particolare perché è stato educato da don Giussani sempre così, ad una fedeltà alla formula tradizionale, senza mai una sbavatura di spontaneismi. Anche nel canto liturgico Giussani ha voluto sempre il gregoriano, i polifonici, le laudi medievali, e quando qualche volta ha introdotto alcuni dei nostri canti è stato sempre adeguatamente scelto. Io che sono vecchio, ho conosciuto don Giussani nel 1960 e l’ho visto celebrare le messe di prima del Concilio, dove i fedeli praticamente non facevano niente, solo assistere, però Giussani aveva trovato il modo intelligente di farli assistere. Le celebrazioni nel movimento hanno conservato la loro austerità, la loro verità che avevano agli inizi».

testo via messainlatino.it

Avviso sacro: Missa Cantata a San Gaetano

Padova, Chiesa di San Gaetano, la volta col "Paradiso" di Guy Louis Vernansal

Dopo le Celebrazioni nella Pontificia Basilica Antoniana, questa volta, nella città del Santo, la "Messa tridentina" trova accoglienza in una (bellissima) Chiesa diocesana:


CELEBRAZIONE LITURGICA 
NELLA FORMA EXTRAORDINARIA
DEL RITO ROMANO

secondo le disposizioni del Motu Proprio Summorum Pontificum
di S.S. Benedetto XVI.

MISSA CANTATA 
officium de
Sancta Maria in sabbato

“Salve, sancta parens, eníxa puérpera Regem”
 
SABATO 1 OTTOBRE
ORE 16:00

 
CHIESA DEI SANTI SIMEONE E GIUDA
“SAN GAETANO”
 
Via Altinate, Padova
 
La Messa sarà preceduta da una breve introduzione al Rito.
Sono invitati alla partecipazione, in particolar modo, giovani e studenti.



La corsa alla Cattedra marciana: spunta Crepaldi


Da Roma a Trieste e ritorno, passando però per Venezia. La tappa, per così dire, della “consacrazione”. Chissà non possa essere questa la “parabola” fulminea di monsignor Giampaolo Crepaldi, il vescovo di Trieste, il quotato teologo nato nel 1947 a Villadose (cinquemila anime in provincia di Rovigo) che due anni or sono lasciò il Vaticano, per guidare la diocesi “periferica” di Trieste, con la mai smentita intima speranza di tornarci, un giorno non precisato, da cardinale. “Ambizione” legittima - si narra negli ambienti di fede - per uno che in Vaticano, per fare un’esperienza pastorale, la prima, che lo potesse arricchire e “qualificare” nel suo percorso, all’epoca aveva mollato nientemeno che la segreteria del Pontificio consiglio della giustizia e della pace, cioè l’organo che aveva appena lavorato con Benedetto XVI sull’enciclica “Caritas in veritate”. Come “incentivo” ad personam - riconoscimento del suo spessore - aveva ricevuto la nomina ad arcivescovo. Trieste, insomma, tappa di vita. Di certo non capolinea.
Ora però che Papa Ratzinger ha fatto del Patriarca di Venezia Angelo Scola il nuovo arcivescovo di Milano - aprendone l’iter di successione, che passa per una terna tra cui scegliere a partire dall’8 settembre, quando Scola entrerà in Milano - monsignor Crepaldi potrebbe bruciarle, quelle tappe. Già, perché patriarca vuol dire anche presidente triveneto della Conferenza episcopale e soprattutto - sebbene non automaticamente ma per le vie brevi comunque sì... - cardinale. Un “avente diritto” al voto più trascendente di questo mondo: il conclave.
Dopo i rumors già raccolti dalle nostre parti lo scorso mese, di recente infatti tra le righe di un articolo di “Repubblica” da Città del Vaticano il nominativo del vescovo di Trieste è associato ad altri quattro nel toto-successore di Scola. C’è Pietro Parolin, il nunzio apostolico in Venezuela, dato in vantaggio su tutti. Eppoi ecco Crepaldi, sullo stesso piano del “collega” di Rimini, Francesco Lambiasi, del presidente del Pontificio consiglio della Cultura, il cardinale Gianfranco Ravasi, e dell’arcivescovo di Chieti Bruno Forte.
«Monsignor Crepaldi, i numeri, li ha tutti. Il suo bagaglio lo mette in pole-position, ma al tempo stesso la sua presenza a Trieste è molto importante», mette le mani avanti don Ettore Malnati, vicario episcopale per la cultura e il laicato, di fatto un “braccio destro” del vescovo, il quale ricorda come per succedere al cardinale Scola, per inciso ciellino e “motore” della Facoltà teologica del veneto, serva «una visione internazionale, una conoscenza della dottrina sociale che monsignor Crepaldi ha».
L’attuale vescovo di Trieste, tuttavia, ha dimostrato in questi due anni anche altre caratteristiche, che - secondo certi rumors triestini rimbalzanti fin nella capitale - contribuirebbero invece a trattenerlo ancora a San Giusto, e a tempo indeterminato. Una di queste caratteristiche è la grande schiettezza, ai confini della diplomazia, in certe uscite pubbliche, il che tra Vaticano e Cei non è scivolato sempre via come una minerale non gassata. Un episodio ad esempio riporta alla dialettica epistolare, per così dire, con Claudio Magris a proposito della rubrica delle lettere “soppressa” su Vita Nuova. Un altro episodio, molto più fresco, è la sua presa di posizione in merito al referendum sull’acqua: una «strumentalizzazione» nella quale la gente ci sarebbe caduta, secondo il nostro vescovo. «L’acqua rimanga pubblica», aveva ammonito prima del voto, invece, monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Cei. E non è che la Cei, nelle designazioni episcopali, non metta bocca.

Piero Rauber (il Piccolo)

Veneti episcopi: Giuseppe Callegari



Giuseppe Cardinal Callegari, Vescovo di Padova già Vescovo in Treviso.



L'abside, la speranza nella parusia

Feltre, l'abside della Cattedrale

di Luigi Codemo (per La Bussola Quotidina)

L’abside di una chiesa è la parete che non chiude. È il monte abbassato. Il burrone riempito. Il sentiero raddrizzato. È lo spazio aperto da Cristo, dall’avvento di «colui che è, che era e che viene» (Ap 1,8). Quelle pietre che a semicerchio fuoriescono dalle mura squadrate ricordano che ogni celebrazione della liturgia è cammino verso il ritorno di Cristo. Attestano la speranza nella parusia.
Cristo, infatti, è il veniente per eccellenza, o erchòmenos, colui che è in atto di venire (Mc 11,9). Anche ora, in questo momento. Ci sarà il momento in cui tutto sarà palese, quando il cosmo intero sarà giunto al traguardo e si aprirà il tempo della nuova terra e del nuovo cielo, il tempo della nuova Gerusalemme, della città che non ha più bisogno né del sole né della luna, perché la gloria di Dio stesso la illumina (Ap 21,23). Ma tutto questo non è ancora. Anche se è già visibile agli occhi della fede. Perché in Cristo «tutto è compiuto» (Gv 19,30). E nei sacramenti l’eschaton, ciò che sarà, è già presente e in atto. «Se uno è in Cristo – scrive San Paolo – è una creazione nuova: il mondo vecchio è passato, ecco tutto si è fatto nuovo» (2Cor 5,17).
Viviamo nel tempo del "già e non ancora". Per spiegarlo, Gregorio Magno utilizza l’immagine dell’aurora: il sole ha cominciato a sorgere, ma le tenebre cercano di stringersi ancora alle cose del mondo, spalancano le fauci e sbattono la coda, perché sanno che resta loro poco tempo (Ap 12,12). Per questo l’abside è costruito volto ad oriente, per accogliere i primi raggi del sole che sorge e vince le tenebre. L’abside è il segno esteriore della fede che, vivendo del mistero pasquale, ovvero di Cristo risorto, si rivolge piena di speranza all’incontro definitivo, non più velato, con Cristo.
La fine non è, quindi, attesa di uno spegnimento, di un fiaccarsi dei tempi, di uno sprofondare nell’inerzia della notte. Cristo ha distrutto le potenze della morte in vista dell’incorruttibilità. Per dirla con Clemente Alessandrino «Cristo ha mutato il tramonto in Oriente».
Quando si vede la croce del presbiterio inscritta nell’abside o rappresentata, come per esempio nel mosaico di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, torna alla mante che Cristo nel giorno della Parusia porterà sul corpo i segni della croce. È questo un mistero che lascia ammirati. Il corpo umano, con tutte le sue ferite, è dentro il mistero della Trinità! Certo, un corpo trasfigurato, ma che comunque non ha abolito le ferite.
Anche i dipinti che ritraggono Cristo “Giudice dei vivi e dei morti” ne mostrano le stimmate. Egli, nella sua onnipotenza, non scuote via da sé, come se fosse pulviscolo, la propria umanità. Non lo ha fatto sul Golgota e non lo ha fatto ascendendo al cielo. Egli è uomo e Dio. Per questo è giudice: perché è la misura assoluta del rapporto tra l’umano e il divino. Egli lo ha testimoniato nella sua verità. Alla verità a cui ciascun uomo è chiamato. La distanza dal suo esempio sarà oggetto del giudizio dell’ultimo giorno.
E su questo tema del giudizio è ancora l’abside che ci può aiutare, ricordandoci la misericordia di Dio. L’abside infatti, con la sua forma che esorbita, segna come un sovrappiù. Indica il tempo della pazienza di Dio. «Il Signore non ritarda nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9). Il Signore è misericordioso e quindi attende: lascia tempo affinché gli uomini si convertano e coloro che si convertono si perfezionino.

Nobiltà papalina, il gran ritorno


La nobiltà nera romana è in fermento. Paolo VI, 40 anni fa, sciolse la Guardia nobile pontificia e allontanò la cosiddetta aristocrazia nera dai sacri palazzi. Oggi forse è arrivata l'ora della rivincita: Benedetto XVI sembra infatti intenzionato a nominare un nuovo principe assistente al soglio pontificio. La scelta dovrebbe cadere su Prospero Colonna, sposato con Jeanne, due figli, religiosissimo. Colonna andrebbe ad affiancare l'altro nobiluomo rimasto accanto al Papa, Alessandro Torlonia, anch'egli assistente al soglio. Il Pontefice, in occasione delle cerimonie più solenni, tornerà ad avere ai lati del trono due nobili romani, appartenenti a due delle famiglie più antiche e prestigiose della capitale. (I.I)

© Copyright Panorama

Chiusura del Concilio Vaticano II: una delle ultime apparizioni del Principe Assistente al Soglio nella storica "divisa". Dopo le Riforme di Paolo VI, il titolo non gode di ereditarietà. Attualmente l'Assistente al Soglio svolge funzioni di rappresentanza.

 immagini Corbis

Blasoni feltrini




Feltre, Santuario dei Santi Vittore e Corona, particolare.

Lefevriani: colloqui "cortesi" e "vivaci" in Vaticano

 
La Santa Sede è pronta ad arrivare ad una piena riconciliazione con i tradizionalisti lefebvriani, purché questi accettino i contenuti di un breve “Preambolo dottrinale”: è quanto emerso dall’incontro che si è tenuto questa mattina in Vaticano tra il cardinale William Levada, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e monsignor Bernard Fellay, superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da monsignor Lefebvre.
 Una proposta allettante, per i tradizionalisti, che in cambio dell’accettazione di quella che viene definita la “base fondamentale” per una “eventuale e auspicata riconciliazione”, verrebbero riaccolti nella Chiesa cattolica con la formula della “prelatura personale” – una struttura canonica di cui fin ad oggi ha goduto solamente l’Opus Dei, slegata dal riferimento a un territorio preciso e libera dalla supervisione dei vescovi locali e delle Conferenze episcopali.
 Il “Preambolo dottrinale” offerto oggi ai lefebvriani, come anticipato ieri da Vatican Insider, è un testo sintetico, di due o tre pagine, che riafferma i principi fondamentali della fede cattolica necessari per mantenere l’unità della Chiesa. Il suo contenuto, ha detto però il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, è destinato a rimanere segreto.
In una nota, la Sala Stampa della Santa Sede si limita a spiegare che il testo “enuncia alcuni principi dottrinali e criteri di interpretazione della dottrina cattolica, necessari per garantire la fedeltà al Magistero della Chiesa e il ‘sentire cum Ecclesia’”, ma lascia “alla legittima discussione lo studio e la spiegazione teologica di singole espressioni o formulazioni presenti nei documenti del Concilio Vaticano II e del Magistero successivo”.

Il “Preambolo dottrinale” non sembra contenere, quindi, una richiesta esplicita di “pieno riconoscimento del Concilio e del magistero di Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e dello stesso Benedetto XVI”, come affermato dalla Segreteria di Stato in una nota del dicembre 2009.
 L’incontro di questa mattina arriva dopo due anni di colloqui dottrinali che hanno permesso di “chiarire le rispettive motivazioni e relative motivazioni”, sottolinea la Sala Stampa vaticana. Il dialogo della Santa Sede con i lefebvriani era stato riavviato nel 2009 da papa Benedetto XVI con la sua decisione di cancellare la scomunica ai quattro vescovi tradizionalisti, tra cui il controverso monsignor Richard Williamson che in un’intervista aveva negato l’Olocausto.
 Secondo padre Lombardi, i colloqui di questa mattina sono stati "cortesi" e "vivaci". La risposta dei lefebvriani al documento vaticano è attesa nel giro di qualche mese.

L’offerta del Vaticano, spiega la Sala Stampa vaticana, tiene conto “delle preoccupazioni e delle istanze presentate” dai lefebvriani “in ordine alla custodia dell’integrità della fede cattolica” di fronte a quella che papa Benedetto XVI, nel suo discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, aveva definito “l’ermeneutica della rottura del Concilio Vaticano II rispetto alla Tradizione”, ovvero un’interpretazione del Concilio che lo metteva in contrapposizione con la storia millenaria della Chiesa.
di Alessandro Speciale per Vatican Insider

 immagine da Panoramio


O crux ave, spes unica
in hac triumphi gloria!
Piis adauge gratiam,
reisque dele crimina.

O crux admirabilis, 
evocatio vulneris,
restitutio sanitatis.


Vince l'età: premio a De Antoni, la stangata a Mattiazzo

Mons. Antonio Mattiazzo, Arcivescovo Vescovo di Padova

Monsignor Dino De Antoni è il nuovo presidente della Conferenza espiscopale del Triveneto. L’arcivescovo di Gorizia è stato eletto dopo la partenza del cardinale Angelo Scola, già Patriarca di Venezia ed ora arcivescovo di Milano. Nella stessa occasione i Vescovi hanno, inoltre, provveduto all’elezione del nuovo vicepresidente: monsignor Antonio Mattiazzo, vescovo di Padova.
E la periodica riunione dei Vescovi del Triveneto che si sono ritrovati nei giorni scorsi a Zelarino (Venezia) ha dato il via all’incarico dell’arcivescovo di Gorizia. Tema principale dell’incontro è stata la visita di Papa Benedetto XVI e il cammino verso “Aquileia 2”, il convegno ecclesiale delle comunità cristiane delle 15 Diocesi del Nordest in programma dal 13 al 15 aprile 2012.
Durante l’incontro, i Vescovi hanno esaminato e discusso la nuova “traccia di lavoro” predisposta dal Comitato triveneto che si sta occupando di “Aquileia 2” e che fornisce precise indicazioni sulle tappe e sulle modalità del lavoro che caratterizzerà il periodo di “preparazione immediata” all’appuntamento del prossimo anno. Si punta, in particolare, sulla diffusione e condivisione delle “testimonianze” redatte nei mesi scorsi dalle Diocesi nell’intento di raccontare la vita attuale, l’impegno, le gioie e le fatiche delle Chiese e del territorio del Nordest evidenziandone soprattutto i cambiamenti in atto in questi anni. Si tratterà, ora, di individuare insieme le questioni emergenti e fondamentali che più interessano e stanno a cuore alla vita di queste regioni, anche in vista di una più stretta collaborazione – di esperienze, iniziative, strumenti, stili di vita e orientamenti pastorali – tra le Chiese del Nordest.
Per accompagnare e sostenere il cammino di “preparazione immediata” sono state focalizzate tre piste per il lavoro e la riflessione comune: la nuova evangelizzazione nel Nordest (come annunciare e far incontrare Cristo oggi per testimoniare la “vita buona del Vangelo”); il dialogo con la cultura del nostro tempo (soprattutto nell’attuale contesto multiculturale e multietnico del Nordest, crocevia di popoli e culture); l’impegno per il bene comune (sugli ambiti di vita pubblica che richiedono con maggiore urgenza la collaborazione e l’apporto delle comunità ecclesiali).
da http://bora.la 


Mons. Dino De Antoni, Arcivescovo Metropolita di Gorizia

Scola si è già... "milanizzato"

Il nuovo stemma dell'Arcivescovo di Milano

Eliminato ufficialmente il leone marciano dallo stemma del Cardinal Scola. Il nuovo Arcivescovo di Milano dopo la presa di possesso canonico, si prepara all'ingresso solenne nell'Arcidiocesi, in programma per il 25 settembre.


prima...

... dopo (da Catt. Romani)


Ai Frari, uno sponsale blasonato

 
Qualche interessantissimo scatto di un solenne matrimonio in una Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari in pompa magna: è il 12 settembre 1927, Celebra il Vicario o lo stesso Cardinal La Fonataine, Patriarca di Venezia. Gli sposi sono Marina Volpi contessa di Misurata e Carlo principe Ruspoli di Poggio Suasa.




La corsa alla Cattedra marciana: Moraglia avanza, Parolin resiste

 
Monsignor Francesco Moraglia tra i candidati per la carica di Patriarca di Venezia. C’è anche il nome del vescovo della diocesi della Spezia, Sarzana e Brugnato nella ristretta lista di prelati dalla quale Papa Benedetto XVI nominerà fra pochi giorni il successore del Patriarca uscente Angelo Scola, destinato a sostituire il cardinale Dionigi Tettamanzi alla guida della Cattedra di Ambrogio a Milano. Un’ipotesi, quella che vedrebbe il 58enne vescovo genovese a capo della sede cardinalizia della Serenissima, che negli ultimi giorni ha preso sempre più consistenza negli ambienti vaticani.

L’apprezzata collaborazione di monsignor Moraglia da parte del Segretario di Stato della Santa Sede, Tarcisio Bertone (col quale Moraglia ha collaborato in passato, quando Bertone era ancora arcivescovo di Genova) e il governo della chiesa spezzina in sintonia con l’attuale presidente della Conferenza Episcopale italiana Angelo Bagnasco, fanno del vescovo spezzino un outsider più che accreditato nella ‘corsa’ al patriarcato veneziano. La candidatura del vescovo della diocesi spezzina si affianca a quella di altri cardinali di ‘peso’, come il teologo arcivescovo di Chieti Bruno Forte, il giurista Francesco Coccopalmerio ma anche l’arciprete di San Pietro, il cardinale Angelo Comastri, mentre nei mesi passati si era parlato anche dell’attuale nunzio in Venezuela, l’arcivescovo veneto Pietro Parolin, e del vescovo di San Marino Luigi Negri.

Non si dovrà attendere molto tempo per la nomina del successore di monsignor Scola, dato che il Vaticano non avrebbe nessuna intenzione di lasciare scoperta a lungo una sede cardinalizia assai ambita e di grande prestigio, una diocesi che fu guidata anche da Papa Luciani e da Giovanni XXIII, entrambi Patriarchi prima di essere eletti in conclave.
Francesco moraglia, ordinato sacerdote il 29 giugno 1977 a Genova dall’allora arcivescovo Giuseppe Siri, è Vescovo della diocesi spezzina dal 6 dicembre del 2007, quando fu nominato dal Papa in sostituzione del Vescovo emerito Bassano Staffieri. Consultore della Congregazione per il Clero, dall’anno scorso è anche Presidente del consiglio di amministrazione della Fondazione Comunicazione e cultura’ della Conferenza Episcopale Italiana.

Matteo Marcello per La Nazione

I Gabrieli per la "Messa dell'Incoronazion del Dose"

Il Doge Marino Grimani




Il trionfo della musica policorale e l'apoteosi della Repubblica di Venezia nel più caratteristico e celebrativo rito dello Stato Veneto. Ne avevamo già discusso qualche tempo fa, ma torniamo volentieri all'argomento, cogliendo al balzo la comparsa su Youtube dell'intera incisione filologica (1990) delle musiche della "Messa d'Incoronazione" del Doge Marino Grimani. I Gabrieli Consort e Player, diretti da un magico Paul Mc Creesh ci regalano pure i suoni delle campane, del turibolo e del canto dell'Epistola e del Vangelo intonatati nella mattina del 27 aprile 1595, in una Basilica marciana addobbata a festa per le celebrare il novello Serenissimo Principe. La fantastiche musiche di Andrea e Giovanni Gabrieli, zio e nipote, si susseguono tra gregoriano e intermezzi strumentali di Cesare Bendinelli, plasmando un vero tripudio sonoro, fragmentum di uno splendor liturgiae che merita l'ascolto completo.




La Liturgia si apre con musiche di Giovanni Gabrieli: l'Intonazione ottavo tono, la Canzona [13] à 12. Dopo l'Introito, la Sonata 333 di Cesare Bendinelli. Segue la toccata e l'Intonazione al primo tono di Andrea Gabrieli, Kyrie à 5, Christe à 8, Kyrie à 12 e Gloria à 16 dello stesso autore. Alla conclusione della Colletta l'Intonazione a terzo e quarto tono di Giovanni Gabrieli, sua pure la Canzona [16] à 15 che precede il Vangelo. Il Credo è soverchitato dall'Intonazione al settimo tono dell'Andrea, seguito dal grandioso mottetto Deus qui beatum Marcum à 10 del nipote Giovanni. Dopo il Prefazio, Sanctus e Benedictus à 12. Prima e dopo il Pater Noster, si alternano sonate, intonazioni e fanfare, tra cui la celebre Pian e Forte à 8. L'Agnus Dei è omesso Strepitosa composizione, l'O sacrum convivium à 5 corona i riti di comunione precedendo il Benedictus Dominus Deus sabaoth dello stesso Andrea Gabrieli. La Messa si conclude col monumentale Omnes gentes à 16 di Giovanni.

Quella che può essere definita la “scuola veneziana” vantava perciò caratteri del tutto all'avanguardia e moderni per l'Europa musicale del primo '600 e presentava una varietà melodica, armonica e di generi del tutto unica: ciò si deve al carattere “misto” della sede di San Marco, ove venivano celebrate non solo funzioni sacre ma anche tutti gli eventi politici, militari e di rappresentanza che coinvolgevano la Repubblica



Cerimonia in Piazzetta San Marco, incisione di Giacomo Franco

Adieu Scola: «gratitudine al Signore per questo decennio»

 

Non è mancata la «gratitudine al Signore per questo decennio». Né la richiesta di «perdono, a coloro che volontariamente o involontariamente avessi potuto offendere in questo cammino. Se ho peccato contro questa Chiesa ho soprattutto peccato di omissione». Né poteva mancare la rilettura di quanto sta avvenendo a questa Chiesa – e a lui, chiamato ad essere il nuovo arcivescovo di Milano – secondo il filtro della Parola di Dio: «Perché Cristo è la nostra vita siamo qui questa sera. Perché Cristo è la nostra vita noi ci disponiamo a seguire un disegno che ci supera». E ancora: «Ogni prova, compreso il distacco, è per un di più, è per il nostro bene».
«Questa Venezia è un messaggio all'umanità». Ma l'ultima omelia del card. Angelo Scola, pronunciata mercoledì sera dal pulpito della Cattedrale di San Marco, è stata anche l'occasione per rilanciare ancora una volta la missione affidata a questa città dell'umanità, alla «Serenissima nostra città che tanta luce ha avuto dalla nostra Chiesa e che tanta ancora se ne aspetta». Colpito, quasi stregato dal «prorompere della bellezza della nostra Venezia, assolutamente indicibile, indescrivibile», assaporata durante il viaggio nella “disdotona” offertogli poco prima dalle remiere, il card. Scola sottolinea: «Questa Venezia è un messaggio all'umanità, perché il suo popolo la vive in modo tale da renderla un messaggio per l'umanità. E' una responsabiltà per la Chiesa, una responsabiltà per tutti gli abitanti della società civile plurale, un compito per l'umanità in un tempo di grande travaglio».
La lode ai presbiteri. Ha lodato ancora, il card. Scola, il «presbiterio solido, ricco, pluriforme ma unito. Questa è, assieme all'apporto dei religiosi e delle religiose, la grande eredità, la ricchezza della Chiesa di Venezia che il Patriarca Angelo lascia al suo successore. Per la potenza di Cristo questa Chiesa ha un grande futuro, come ce l'ha la città serenissima».
«Che bella Chiesa locale è la Chiesa di Venezia. Realmente è un luogo di pluriformità nell'unità», ha aggiunto. «Una Chiesa ben radicata in Marco, nei suoi successori, in san Lorenzo Giustiniani, nei grandi papi santi e beati, nei patriarchi che ci hanno preceduto, nei tanti santi che hanno vissuto nella nostra terra e hanno seminato i carismi del rinnovamento della vita». Si incrina la voce quando cita anche «i nostri cari che ci hanno già preceduto all'altra riva».
«Nessun distacco è propriamente un distacco», ha rimarcato. «Nessuna partenza è una partenza per chi è incamminato verso un'unica meta: Cristo nostra vita, Cristo tutto in tutti».

Paolo Fusco
Tratto da GENTE VENETA, n.35/2011


 


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