Uno sguardo veneto sulla Liturgia, musica e arte sacra, le attualità romane e le novità dalle terre della Serenissima.
Sul solco della continuità alla luce della Tradizione.

Per i commentatori del blog




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Buona continuazione.

Qualche simpatica "pasquinata veneta" ad opera dei commentatori di Sacris Solemniis:


"Piango supino
io son Tonino!

Per Apostolico ordine
un Ligure giunse

m'osurpo Venezia
e liberò La Spezia!

Qual sventura!
A Padoa a xe dura!

Come finiraea?
Un baeto in saea?

Al Santo o a Santa Giustina,
basta che ghe sia 'na gaina!"

di Anonimo (31 gennaio 2012)

"Infine e' giunto, il giorno atteso
a Pietro m'inchino, San Marco paveso

Francesco mi chiamo, un nome, un onore
il Culto io servo, con grande nitore

l'altare marciano, di ture circondo
dal pulpito parlo, il Verbo diffondo

Lorenzo Adeodato, i miei precessori
Albino e Marco, son intercessori

dal molo io vengo, la Fede mantengo
a Genova grato, Giuseppe invocato

Dalmazia regale, Venezia dogale
a tutti un saluto, con sguardo cordiale "

di Federico Tedeschini (31 gennaio 2012)

Avviso sacro: Concilio, Musica Sacra e Cardinal Burke




A Verona, un appuntamento imperdibile per tutti i musicisti chiesastici e gli amatori del genere: sabato 6 ottobre "Colloqui di Musica Sacra" tra Concilio Vaticano II e Magistero di Benedetto XVI. A coronare la giornata, il Pontificale del Cardinale Burke  nella chiesa di San Fermo dei Filippini, diretto dall'instancabile (e veronese) mons. Agostini, cerimoniere pontificio.





Splendori berici: l'altare nell'armadio




di Vittorio Bolcato per Il Giornale di Vicenza  
Tra gli innumerevoli usi del Salone della Ragione, in Basilica palladiana, ce n'è stato uno sacro. C'era un altare per celebrare la messa in Basilica, documentato a fine Cinquecento. Nel “Regestum possessionum comunis Vincencie” (1262) si legge che col prospetto principale verso il duomo c'era il Palatium vetus Communis Vincentiae, sede della Camera degli Anziani e di una Cappella dedicata a S. Vincenzo e vi si amministrava la giustizia. Accanto c'era il Palatium Communis con il Salone dei Quattrocento. Confinavano con il Palatium Communis il palazzo e la torre della famiglia Bissari, acquistati dalla Comunità per la residenza del Podestà e per le campane del Comune. Nel 1236 Federico II incendiò gli edifici del Comune che furono ricostruiti nel 1262; fu ricostruita pure la cappella. Tra il 1449 e il 1460 furono eseguiti interventi radicali degli edifici, abbattendo anche la cappella di S. Vincenzo, che furono unificati in un grande vano: il Palazzo della Ragione. Per secoli questo “contenitore” fu il centro della vita pubblica di Vicenza: era la sede dei Tribunali, del “Consiglio grande, detto dei Cinquecento” e dei notai, che ricevevano i clienti nei loro “banchi” sistemati lungo il perimetro del salone. All'occorrenza veniva trasformato anche in teatro e in sala da ballo. In un teatro ligneo, costruito dal Palladio all'interno del salone, gli Accademici Olimpici vi recitarono l'Amor costante di Piccolomini (1561) e la Sofonisba di G.G. Trissino (1562). Per l'inaugurazione del teatro Olimpico (1585) il Capitanio Alvise Mocenigo diede nel salone una grandiosa festa da ballo, alla quale intervennero più di 500 dame. Solo nel 1581 la Comunità di Vicenza deliberava di costruire nel Palazzo della Ragione un altare per celebrare le liturgie in onore del patrono S. Vincenzo. Nonostante che dal 1387 fosse officiata la chiesa dedicata a S. Vincenzo eretta nel “Peronio”, la Comunità “ha voluto conservare il costume antico di celebrare la solennità nel detto Palazzo, e non nella Chiesa di detto s. martire perché la prima Cappella fabbricata ad onor del medesimo fu fondata nel Palazzo Forense Vecchio, e così questa Città ha voluto conservare il costume antico”. Marco Boschini (I gioieli pittoreschi...della città di Vicenza, Venezia, 1676) così descrive l'altare: Sala grande del Palazzo, ove si trattano le cause civili. Evvi un'armaro chiuso, che si apre una volta all'anno il giorno di S. Vincenzo dentro di cui vi stà un quadro, sopra il quale v'è dipinto S. Vincenzo, e quando s'apre il detto armaro vi si celebra una messa; assistendovi i Rettori, e tutti i Rappresentanti publici, & il Clero: e la detta Pittura è di mano di Alessandro Maganza. Il dipinto, con i santi Vincenzo e Marco che presentano Vicenza alla Madonna col Bambino, è ora collocato nella quarta cappella a destra della cattedrale. Nella descrizione dell'altare il Boschini precisa che un altro dipinto “in meza luna” del Maganza con la Vergine Annunciata era posto sopra l'altare. Giuseppe Dian, nelle sue “Cronache della Cattedrale” aggiunse altri particolari: “Nel salone della Basilica di Piazza un tempo l'altare era stabile, e collocato al punto che presentemente è la seconda fenestra verso la Pescaria dalla parte di mattina, ma essendosi restaurato nell'anno 1796 detto salone fu levato detto altare per costruirvi la fenestra, perciò per l'annua funzione si erigeva un altare mobile in capo all'indicato salone”. Dal 1816, essendo che in quell'anno per la grave carestia si erano ammassate nel salone grandi quantità di granaglie acquistate dal Comune da distribuire ai poveri, per ordine del vescovo Peruzzi la celebrazione della festa fu trasferita in duomo. Nella parete del salone verso la Piazzetta Palladio vi sono quattro grandi finestre. L'altare occupava l'intero spazio della seconda finestra a destra che verosimilmente era stata tamponata. L'adattamento dell'originaria finestra a sesto acuto all'altare-armadio cinquecentesco è percepibile osservando la tessitura dei mattoni che incorniciava l'altare con un arco a tutto sesto perfettamente concentrico alla cornice della tela dipinta da Alessandro Maganza.



Una possibile ricostruzione dell'altare nel Salone della Ragione.

                                                                         

A Padova il tesoro "domestico" delle clarisse medievali


da culturaeculture.it
Memorie ritrovate. È questo il titolo della mostra che si svolgerà a partire dal 31 agosto 2012 a Palazzo Zuckermann di Padova dove saranno esposti rinvenimenti archeologici dal convento di Santa Chiara fino a domenica 18 novembre 2012. La mostra è già stata presentata con un grandissimo successo di pubblico, oltre 24mila visitatori in pochi mesi, al CEMA – Centro Espositivo Multimediale dell’Archeologia di Noventa di Piave (VE), e approda ora a Padova, sua terra d’origine, con un nuovo allestimento, contenuti aggiornati, approfondimenti storiografici e iconografici.
Le «memorie» esposte sono state ritrovate nell’antico e perduto Convento di Santa Chiara De Cella Nova a Padova che fiorì tra il XIV e il XVIII secolo, ma che negli anni Sessanta del secolo scorso venne demolito per erigere la Questura. Nel 2000 l’indagine archeologica diretta da Mariangela Ruta e condotta da Petra scrl nel cortile della Questura di Padova ha portato alla luce una struttura esagonale, residuo dell’impianto originario del convento e punto di partenza di una scoperta senza eguali. Sulla base dei materiali rinvenuti e delle notizie d’archivio che narrano delle vicissitudini del monastero si ipotizza che tale struttura esagonale abbia svolto la funzione di ghiacciaia-dispensa in epoca tardo-medievale (XIII e XIV secolo) e sia stata adibita poi ad immondezzaio in età rinascimentale (XV e XVI secolo).
Il curatore della mostra Francesco Cozza – grazie anche agli interventi di restauro conservativo, condotti da restauratori del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e da liberi professionisti – ha saputo restituire ai numerosi oggetti esposti i loro significati, sia funzionali che simbolici, come si può apprendere dalla lettura del catalogo riccamente illustrato e acquistabile presso il bookshop dei Musei Civici Eremitani, in piazza Eremitani n.8. Ceramiche maiolicate, graffite e invetriate, reperti vitrei decorati, manufatti metallici, strumenti fittili, in osso, legno e cuoio, costituiscono il «tesoro» perduto, ritrovato e restaurato. Un cuore strappato da due mani, una figura femminile dal volto maschile, un cane in atteggiamento di auto-castrazione accanto a figure prettamente religiose, come l’Annunciazione e il calice con l’Ostia, sono solo alcuni esempi dell’eterogeneità dell’esposizione.
«Portare la mostra a Padova», afferma il curatore Francesco Cozza, «significa riconsegnare alla città parte della sua storia perduta. Il successo del primo allestimento al CEMA – Centro Espositivo Multimediale di Noventa di Piave ha dimostrato che Le memorie ritrovate ha suscitato un reale e vivo interesse, quindi ci è sembrato doveroso far conoscere anche a Padova le scoperte e i tesori del suo territorio». La mostra è stata organizzata dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto, unitamente all’Assessorato alla Cultura del Comune di Padova e ai Musei Civici di Padova, su idea e realizzazione di Cultour Active (società di promozione di eventi culturali), in collaborazione con McArthurGlen Designer Outlet di Noventa di Piave (VE) e la ditta Diego Malvestio & C. 

 Ingresso libero, orario 10-19, chiuso tutti i lunedì non festivi.


Ottocento tarvisino




Bertolini Albino, L'ingresso dell'Ospedale di Santa Maria dei Battuti, Treviso, 17 marzo 1889
Fondo fotografico : Bertolini - F.lli Sala



Venezia straordinaria, una testimonianza





da gvonline
Gentile Direttore, sono un trentacinquenne di Bergamo ma da lungo tempo legato - per quello che credo un disegno della Provvidenza - alla città di Venezia. Scrivo alla Vostra rivista per dare testimonianza personale della fecondità di una "straordinaria" esperienza ecclesiale che da alcuni anni, per la lungimirante intuizione del cardinal Scola, si sviluppa nel Patriarcato. Fin da piccolo, allorquando il Signore, nella Sua bontà, mi ha dato in più occasioni la grazia di conoscere santi sacerdoti, avevo avvertito in certo qual modo il richiamo alla vita sacerdotale. Laureatomi in ingegneria nucleare a Milano, ho lavorato poi come programmatore. Poco meno di cinque anni or sono ricevuto la grazia di conoscere, proprio a Venezia, presso la chiesa di San Simon Piccolo, la Santa Messa nella Forma Straordinaria del Rito Romano, la straordinaria ricchezza, bellezza e profondità spirituale della sua tradizione liturgica e quindi la fede e la carità di sacerdoti formati nello spirito della Tradizione cattolica. Vi ho visto risplendere, con una chiarezza e purezza straordinaria - come mai prima -, quella che molto semplicemente si può chiamare la pienezza del sacerdozio cattolico, questo sublime tesoro che nostro Signore ha affidato alla Sua Chiesa. Per me, come per altri giovani che ho conosciuto, è stata una rivelazione che ci ha conquistati. Aiutato dal prudente consiglio del cappellano, padre Konrad zu Löwenstein, ho potuto meglio conoscere la Fraternità Sacerdotale di San Pietro e quindi il suo Seminario a Wigrtazbad in Baviera, dove sono infine entrato con grande gioia a settembre dello scorso anno, insieme ad un altro italiano di Roma. Terminato il primo anno, e avviandomi verso la tonsura dell'ottobre prossimo, non posso che riconfermare quell'impressione di serenità ed equilibrio, di serietà (per nulla seriosa), di grande amore per la Chiesa e il Papa, di quella gioia profondamente cattolica che ebbi da subito in occasione della mia prima visita. La quotidiana vita di preghiera, con la Santa Messa, l'orazione e l'ufficio divino, di studio, di lavoro e di ricreazione, nell'equilibrio veramente ammirabile, che certamente viene da una lunga tradizione, sono una testimonianza eloquente della sapienza della Chiesa nella formazione sacerdotale. Non stupisce che ciò, unito alla qualità degli studi in uno spirito autenticamente tomistico, al carattere marcatamente internazionale che rende l'esperienza innegabilmente stimolante e arricchente, alla disciplina che favorisce la crescita della qualità umane e cristiane, allo spirito di raccoglimento e alla bellezza della vita liturgica, sia un potente richiamo per un numero sempre più grande di giovani e, in particolare - ne sono certo - negli anni a venire, di italiani. Non posso che elevare un fervido ringraziamento alla Vergine Nicopeia, di fronte all'icona della quale ho tante volte pregato, per avermi ottenuto la grazia di scoprire, proprio nella Sua città, l'incomparabile bellezza della Liturgia Romana nell'Usus Antiquior e quindi di conoscere e accogliere nella luce di questa la volontà del Signore per la mia vita.

Dimitri Artifoni


Le balaustre, tramiti di cumunicazione




di Andrea De Meo
Varcare un confine a piedi, scavalcare il crinale di un monte, addentrarsi in una caverna, sono piccole esperienze accomunate, come molte altre, da una sensazione particolarissima. A chi le ha vissute non sarà sfuggita l’impressione di oltrepassare una linea oltre la quale vigono altre regole, oltre la quale il comportamento deve mutare perché al di là di quel punto lo spazio è diverso, non è più lo stesso di prima. Gli esempi che ho citato, a solo scopo narrativo, hanno tutti la caratteristica di essere accompagnati da segnali visibili, che quasi suggeriscono con la loro stessa presenza l’incipiente mutamento di stato. In alcuni casi, come l’ingresso in una grotta, tale segnale è offerto dalla natura, in altri, come il passaggio del confine, il segnale è posto dagli uomini.
Esiste un parallelo a queste sensazioni anche nell’esperienza dello spazio sacro? Questo è sacro per effetto di un rituale che vi si celebra e di una formula di dedicazione che lo dedica solennemente alla divinità, ma è vero tuttavia che tale dedicazione, pur comportando un mutamento di stato e quasi di natura del luogo stesso, non ne condiziona però le leggi fisiche né le apparenze, e potrebbe quindi passare inosservato. Ecco dunque che si rende necessario apporre degli avvertimenti, dei nuovi segnali volti a rendere visibile ciò che altrimenti potrebbe non essere percepito. Fu così che nacquero già in tempi ancestrali e presso i culti più antichi i primi recinti per separare i luoghi più sacri dallo spazio circostante, e molto tempo dopo, ma in modo simile, furono create anche le prime recinzioni nei luoghi cristiani per separare il santuario o presbiterio dal resto della chiesa, come si può verificare dalle tracce archeologiche delle più antiche domus ecclesiae.
Nel percorso di attraversamento dello spazio sacro cristiano che in questa rubrica si sta compiendo, sarà infatti inevitabile inciampare, per così dire, in alcuni manufatti, chiamati comunemente balaustre, che per molti secoli hanno costituito una presenza regolare all’interno delle chiese. Nonostante l’apparente banalità di questi oggetti, sarebbero necessari fiumi d’inchiostro per descrivere tutte le funzioni e tutti i significati che essi hanno rivestito, e tutta la storia che li ha modellati fino ad arrivare alla semplicità delle ultime balaustre, mandate in soffitta, se non proprio distrutte, da tanti parroci nei passati cinquant’anni. Le balaustre, infatti, non furono che l’ultima mutazione di quegli elementi separatori che assunsero di volta in volta la forma della transenna lapidea, della tenda, del cancello e dell’iconostasi, e che replicavano quanto già la facciata della chiesa, o il suo portale, esprimevano fin dal primo approccio all’edificio sacro.
Il loro messaggio era un avvertimento, un caveat, posto a segnalare che oltre la linea sulla quale essi si ergevano si entrava in un’area dove l’azione e il pensiero individuale avrebbero dovuto abbandonare le consuetudini mondane e, lasciando alle spalle i diritti del mondo, piegarsi al diritto di Dio e conformarsi ad attitudini più sante. Al contrario infatti di come molti hanno erroneamente pensato, il compito primario delle balaustre e degli elementi ad esse affini non era di tipo funzionale, ma simbolico. Non era dunque di chiudere l’ingresso al presbiterio, ma di manifestare all’esterno di esso cosa il presbiterio dovrebbe realmente significare. Le balaustre dunque, più che elementi di divisione, vanno piuttosto percepite come tramiti di comunicazione. Se esse infatti non fossero esistite, quale spazio avremmo garantito al sacro?
Le balaustre, non diversamente dall’abito talare, custodivano uno spazio esigente, una riserva di santità e ne manifestavano l’esistenza al di fuori rendendola visibile. Quegli umili elementi, che diventavano l’appoggio dei comunicandi e che reggevano gli sguardi inginocchiati dei fedeli verso l’altare, sostenevano inoltre il peso immane di rendere il sacro percepibile e quasi tangibile. Quando, dopo gli anni Sessanta, tanti chierici e religiosi vollero disfarsi del concetto del sacro rivoluzionandolo, si accanirono proprio contro quei recinti che, delimitandolo, lo rendevano riconoscibile. Ma quest’opera di distruzione fu solo apparente: si possono cancellare le tracce del sacro ma esso sussisterà non visto, e presto o tardi tornerà a manifestarsi. Il ristabilimento delle balaustre nel restauro della Cappella Paolina al Vaticano voluto da Papa Benedetto XVI ben manifesta che questi elementi non hanno esaurito la loro funzione e che anzi mai più di oggi si sente nuovamente l’urgenza di restituirli al loro gravoso compito.

de Il Timone (n. 113, maggio 2012) via http://www.missagregoriana.it/?p=668

Riapre la chiesa delle monache patrizie




Un edificio di straordinaria bellezza che si mostra dopo anni di oblio. In occasione della Biennale d'Architettura, grazie ad un accordo tra amministrazione comunale e Messico, la chiesa di San Lorenzo, inofficiata e chiusa dagli anni venti del secolo scorso, sarà accessibile sino al 29 novembre. Un vero evento, anche per i molti veneziani che mai sono riusciti a mettere piede in uno dei luoghi di culto che, ai tempi della Repubblica, era tra i più importanti dell'intera Venezia. 




Fondata con il contiguo monastero benedettino nell'809 per volere della famiglia Partecipazio, la chiesa subì nei secoli successivi ampliamenti e ricostruzioni grazie all'evergetismo suscitato dalle monache di estrazione patrizia alle quali era riservato il monastero.




Le attuali forme si devono al volere della badessa Paola Priuli che, agli inizi del seicento, incaricò per i lavori di ricostruzione l'architetto Simeone Sorella, che sviluppò un'ampia chiesa a pianta quadrata con  coro per le monache alle spalle dal grandioso altare di Gerolamo Campagna, posto al centro dell'edificio suddiviso pure da due arcate chiuse da elaborate inferiate. La facciatà restò incompiuta.
La ricchezza della chiesa, raggiunta durante il seicento ed il settecento, è testimoniata dal celebre dipinto di Gabriel Bella, che ritrae pure i due organi battenti, perduti.  


Gabriel Bella La vestizione di una monaca a San Lorenzo

L'edificio è stato oggetto di importanti scavi archeologici, che hanno interessato gran parte della superficie interna anche per favorire il ritrovamento della tomba di Marco Polo, che vi sarebbe stato sepolto. Nella chiesa furono inumati anche i compositori Francesco Cavalli e Matteo d'Asola.




La chiesa, che si mostra ancora solenne ma violata e deturpata dai decenni di chiusura, rimarrà aperta per tutta la durata della Biennale d'Architettura ad ingresso gratuito, dalle 10:00 alle 18:00 (lunedì escluso). Sino al 2020 resterà in comodato d'uso dello stato messicano che ne curerà i restauri.  




info e foto da alloggibarbaria.blogspot
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