Uno sguardo veneto sulla Liturgia, musica e arte sacra, le attualità romane e le novità dalle terre della Serenissima.
Sul solco della continuità alla luce della Tradizione.

Alla ricerca del Callido di San Giacometto




de Il Gazzettino di Venezia 
Un organo sparito nella chiesa più antica del centro storico: nella migliore delle ipotesi i suoi pezzi giacciono in qualche magazzino pubblico; nella peggiore, si aggiunge un altro pezzo pregiato di Venezia e della sua memoria artistica ed artigianale magari nella villa di qualche ricco americano, arabo, russo, come troppe volte già accaduto persino con i semplici masegni. L'organo in questione è di Gaetano Callido, noto costruttore d'organi settecentesco sia all'interno della Signoria di Venezia, che nell'Emilia Romagna, nelle Marche e perfino a Costantinopoli. Ha restaurato i tre organi nella basilica di San Marco e ne ha costruito uno nella chiesa che fu di Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I, a Canale D'Agordo. Uno dei suoi capolavori, a 10 registri, con prospetto piramidale, due ali ascendenti ai lati e la fila di tromboncini alla base, faceva bella figura nella cantoria sulla parete dell'ingresso principale e diffondeva le sue note nella chiesa di San Giacometto di Rialto, sino al 1933. A seguito del restauro dell'ingresso principale della chiesa, inteso al rifacimento dell'antico lunotto, l'organo venne rimosso e, da allora, risulta disperso. A nulla, fino ad oggi, sono valse le ricerche di Giuseppe Mazzariol, presidente dell'arciconfraternita di San Cristoforo e della Misericordia, che gestisce la chiesa dal 1934. «Il restauro - ha spiegato Mazzariol - ha di fatto impedito all'organo di tornare nel luogo originario, cancellandone la cantoria, ma si sarebbe potuto trattenerlo al piano, carrellandolo, rendendolo spostabile all'interno del sacro edificio. Questo è stato reso possibile anche nella chiesa di Santo Stefano. Abbiamo effettuato delle ricerche: malgrado qualche indizio e molti suggerimenti, esse si sono concluse con un nulla di fatto. L'organo sembra svanito. Qualche indicazione di merito ci era pervenuta da don Gino Bortolan, direttore del museo d'arte sacra diocesana e dei soprastanti laboratori di restauro, ma con la sua recente scomparsa, tutto è piombato nuovamente nel buio. Nessuno ci sa dire dove sia finito l'antico organo: la sua storia sembra terminare nel momento dell'asporto, all'epoca autorizzato dalla Soprintendenza ai Monumenti di Venezia. Ci auguriamo che i pezzi dell'organo giacciano magari nel fondo di qualche magazzino della Soprintendenza o della curia patriarcale; sarebbe davvero un delitto perdere quest'opera callidiana. Ci appelliamo alla città perché San Giacometto, dopo quasi un secolo, possa riavere il suo organo».

Sul palco dei Salesiani qualcosa non va...




di Enrico Ferro per Il Mattino di Padova 
Uno spettacolo teatrale affidato ad una compagnia di Drag Queen, organizzato per sostenere un’associazione per la procreazione medicalmente assistita: il tutto in uno spazio di proprietà dei Salesiani di Padova. È un messaggio di vita, tolleranza e uguaglianza quello che sarà lanciato domani sera dal palco del piccolo Teatro Don Bosco di via Asolo alla Paltana. La compagnia “I Ricci” manderà in scena la rappresentazione “Una mina vagante”, ispirato al film “Mine vaganti” di Ferzan Özpetek: la piece teatrale racconta la storia di Nicola, ragazzo meridionale che da tempo risiede a Roma dove ha avuto modo di vivere alla luce del sole la propria omosessualità. L’iniziativa è stata voluta e organizzata da Cristina Bernardi, fondatrice e presidente dell’associazione Sos Pma (procreazione medicalmente assistita), con la collaborazione dell’Arcigay e il patrocinio del Comune di Padova.
Si comincia alle 21 e il biglietto d’ingresso costa 20 euro: l’incasso sarà interamente devoluto a Sos Pma. L’intento è quello di diffondere una cultura contro le discriminazioni e per la modifica della legge 40 sulla fecondazione assistita. Da qualche giorno le locandine campeggiano all’ingresso del teatro e questo ha causato qualche imbarazzo nella vicina parrocchia di San Giovanni Bosco e al suo parroco don Antonio Marostegan.
Dal punto di vista operativo la gestione dello spazio è affidata a un’associazione laica che porta il nome “Piccolo Teatro”. Ovviamente la proprietà viene costantemente informata della programmazione, che deve essere in linea con le direttive imposte da una apposita commissione formata dalla Cei. L’associazione ha preferito non commentare in alcun modo l’organizzazione dell’evento: «Siamo nelle sabbie mobili», si limitano a dire incrociando le dita per la buona riuscita della serata.

Storie di ordinaria contabilità: i croati al bacio della pantofola




di Gianni Biasetto per Il Mattino di Padova
La restituzione del monastero e della tenuta di Dajla, circa 200 ettari sulla costa istriana, ai benedettini di Praglia sarebbe stato il nodo centrale della recente visita in Vaticano del premier croato Zoran Milanovic. Secondo quanto riportano gli organi di stampa di Zagabria l'incontro tra Benedetto XVI e Milanovic sull’indennizzo del bene (valore circa 30 milioni di euro) - che ricordiamo è stato nazionalizzato nell'agosto del 2011 dallo stato croato - segnerebbe un punto a favore di Praglia. 
La Chiesa ha ragione. Alla fine dell'incontro romano con il segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone, il premier croato ha dichiarato che nel contenzioso la Chiesa ha ragione e che non è il caso di rompere i rapporti con la Santa Sede per un pugno di milioni di kune. Il giorno dopo il suo ritorno a Zagabria Milanovic ha investito dell’intricata vicenda il ministro della Giustizia Orsat Milijeni. Il quale ha ammesso l'errore compiuto lo scorso anno dal suo predecessore del governo di centrodestra, Drazen Bosnjakovi, che per evitare la restituzione a Praglia aveva nazionalizzato per la seconda volta l'immobile nei pressi di Cittanova. 
Il rebus dell’indennizzo. Non sarà facile per i monaci di Praglia, che allo scopo hanno attivato presso un notaio di Pola una srl denominata "Abbazia", ricevere il trasferimento dei beni al valore attuale. Il governo croato dovrà innanzitutto trovare il percorso legislativo per de-nazionalizzare il bene e ri-trasferirlo alla Chiesa. Non alla curia di Pola-Parenzo ma bensì a Praglia. Di mezzo, però, ci sono i cosiddetti trattati di Osimo, accordi bilaterali sottoscritti dai governi italiano e jugoslavo, attraverso i quali i monaci italiani hanno ricevuto all'epoca 1,7 miliardi di vecchie lire. 
La scappatoia. Non essendo gli accordi di Osimo stipulati con la Santa Sede, una delle strade possibili da percorrere dalla Croazia per indennizzare Praglia della tenuta di Dajla, potrebbe essere quella di restituire il bene al Vaticano che potrebbe poi trasferirlo all'abbazia di Praglia. Un'ipotesi non facile da attuare anche se potrebbe avrebbe il via libera del primate della Chiesa croata Jozip Bozanic. 
Dajla oggi. Il bene lasciato dai benedettini ultimamente ha subito notevoli cambiamenti. Di intatto c'è solo la villa con approdo sul mare progettata dall'architetto francese De Menetot. I terreni intorno sono stati venduti dalla curia di Pola-Parenzo a fini turistici ad una società austriaca che nell’area cosiddetta del “Bosco dei frati” ha in progetto un campo da golf, un complesso di ville da 520 posti letto e un albergo.

Cari Monsignori... l'abito piano!




di Andrea Tornielli per Vatican Insider
L’abito deve fare il monaco, almeno in Vaticano. Lo scorso 15 ottobre il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, ha firmato una circolare inviata a tutti gli uffici della curia romana per ribadire che sacerdoti e religiosi devono presentarsi al lavoro con l’abito proprio, e cioè il clergyman o la talare nera. E nelle occasioni ufficiali, specie se in presenza del Papa, i monsignori non potranno più lasciare ad ammuffire nell’armadio la veste con i bottoni rossi e la fascia paonazza.
Un richiamo alle norme canoniche che rappresenta un segnale preciso, di portata probabilmente maggiore rispetto ai confini d’Oltretevere: nei sacri palazzi, infatti, i preti che non vestono da preti sono piuttosto rari. Ed è probabile che il richiamo ad essere più ligi e impeccabili, anche formalmente, debba servire da esempio per chi viene da fuori, per i vescovi e i preti di passaggio a Roma. Insomma, un modo di parlare a nuora perché suocera intenda e magari faccia altrettanto.
Il Codice di Diritto Canonico stabilisce che «i chierici portino un abito ecclesiastico decoroso» secondo le norme emanate dalle varie conferenze episcopali. La Cei ha stabilito che «il clero in pubblico deve indossare l’abito talare o il clergyman», cioè il vestito nero o grigio con il colletto bianco. Il nome inglese rivela la sua origine nell’aerea protestante anglosassone: è entrato in uso anche per gli ecclesiastici cattolici, all’inizio come concessione per chi doveva viaggiare.
La Congregazione vaticana del clero, nel 1994, spiegava le motivazioni anche sociologiche dell’abito dei sacerdoti: «In una società secolarizzata e tendenzialmente materialista» è «particolarmente sentita la necessità che il presbitero – uomo di Dio, dispensatore dei suoi misteri – sia riconoscibile agli occhi della comunità».
La circolare di Bertone chiede ai monsignori di indossare «l’abito piano», cioè la veste con i bottoni rossi, negli «atti dove sia presente il Santo Padre» come pure nelle altre occasioni ufficiali. Un invito rivolto anche ai vescovi ricevuti in udienza dal Papa, che d’ora in poi dovranno essere decisamente più attenti all’etichetta.
L’uso degli abiti civili per il clero è stato legato, in passato, a particolari situazioni, come nel caso della Turchia negli anni Quaranta o del Messico fino a tempi molto più recenti, con i vescovi abituati a uscire di casa vestiti come manager. L’usanza ha poi preso piede in Europa: non si devono dimenticare le ben note immagini del giovane teologo Joseph Ratzinger in giacca e cravatta scura negli anni del Concilio. Ma è soprattutto dopo il Vaticano II che la veste talare finisce in soffitta e il prete cerca di distinguersi sempre meno. Da anni ormai, soprattutto nei giovani sacerdoti, si registra però una decisa controtendenza. Una svolta «clerical» messa ora nero su bianco anche nella circolare del Segretario di Stato.

A Padova, un Concilio da ritrovare




Alla riscoperta del Concilio (perduto?) in un ciclo di appuntamenti organizzati dalla Cappella Università di San Massimo in Padova...



Dalla Segreteria di Stato, stop ai neocrociati




La Segreteria di Stato, a seguito di frequenti richieste di informazioni in merito all'atteggiamento della Santa Sede nei confronti degli Ordini Equestri dedicati a Santi o aventi intitolazioni sacre, ritiene opportuno ribadire quanto già pubblicato in passato: 
Oltre ai propri Ordini Equestri (Ordine Supremo del Cristo, Ordine dello Speron d'Oro, Ordine Piano, Ordine di San Gregorio Magno e Ordine di San Silvestro Papa), la Santa Sede riconosce e tutela soltanto il Sovrano Militare Ordine di Malta —ovvero Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta— e l'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, e non intende innovare in merito.
Tutti gli altri Ordini —di nuova istituzione o fatti derivare da quelli medievali—non sono riconosciuti dalla Santa Sede, non potendosi questa far garante della loro legittimità storica e giuridica, delle loro finalità e dei loro sistemi organizzativi.
Ad evitare equivoci purtroppo possibili, anche a causa del rilascio illecito di documenti e dell'uso indebito di luoghi sacri, e ad impedire la continuazione di abusi che poi risultano a danno di molte persone in buona fede, la Santa Sede conferma di non attribuire alcun valore ai diplomi cavallereschi e alle relative insegne che siano rilasciati dai sodalizi non riconosciuti e di non ritenere appropriato l'uso delle chiese e cappelle per le cosiddette "cerimonie di investitura".


16 ottobre 2012 
Sala stampa della Santa Sede

Partecipazione attiva: non solo parlare, ma anche ascoltare



Da papa Benedetto, un chiarissimo discorso ai membri dell'associazione Italiana Santa Cecilia. Da leggere e diffondere assolutamente.

Cari fratelli e sorelle! 
Con grande gioia vi accolgo, in occasione del pellegrinaggio organizzato dall’Associazione Italiana Santa Cecilia, alla quale va anzitutto il mio plauso, con il saluto cordiale al Presidente, che ringrazio per le cortesi parole, e a tutti i collaboratori. Con affetto saluto voi, appartenenti a numerose Scholae Cantorum di ogni parte d’Italia! Sono molto lieto di incontrarvi, e anche di sapere - come è stato ricordato - che domani parteciperete nella Basilica di San Pietro alla celebrazione eucaristica presieduta dal Cardinale Arciprete Angelo Comastri, offrendo naturalmente il servizio della lode con il canto. 
Questo vostro convegno si colloca intenzionalmente nella ricorrenza del 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. E con piacere ho visto che l’Associazione Santa Cecilia ha inteso così riproporre alla vostra attenzione l’insegnamento della Costituzione conciliare sulla liturgia, in particolare là dove – nel sesto capitolo – tratta della musica sacra. In tale ricorrenza, come sapete bene, ho voluto per tutta la Chiesa uno speciale Anno della fede, al fine di promuovere l’approfondimento della fede in tutti i battezzati e il comune impegno per la nuova evangelizzazione. Perciò, incontrandovi, vorrei sottolineare brevemente come la musica sacra può, anzitutto, favorire la fede e, inoltre, cooperare alla nuova evangelizzazione. 
Circa la fede, viene spontaneo pensare alla vicenda personale di Sant’Agostino - uno dei grandi Padri della Chiesa, vissuto tra il IV e il V secolo dopo Cristo - alla cui conversione contribuì certamente e in modo rilevante l’ascolto del canto dei salmi e degli inni, nelle liturgie presiedute da Sant’Ambrogio. Se infatti sempre la fede nasce dall’ascolto della Parola di Dio – un ascolto naturalmente non solo dei sensi, ma che dai sensi passa alla mente ed al cuore – non c’è dubbio che la musica e soprattutto il canto possono conferire alla recita dei salmi e dei cantici biblici maggiore forza comunicativa. Tra i carismi di Sant’Ambrogio vi era proprio quello di una spiccata sensibilità e capacità musicale, ed egli, una volta ordinato Vescovo di Milano, mise questo dono al servizio della fede e dell’evangelizzazione. La testimonianza di Agostino, che in quel tempo era professore a Milano e cercava Dio, cercava la fede, al riguardo è molto significativa. Nel decimo libro delle Confessioni, della sua Autobiografia, egli scrive: «Quando mi tornano alla mente le lacrime che canti di chiesa mi strapparono ai primordi nella mia fede riconquistata, e alla commozione che ancor oggi suscita in me non il canto, ma le parole cantate, se cantate con voce limpida e la modulazione più conveniente, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica» (33, 50). L’esperienza degli inni ambrosiani fu talmente forte, che Agostino li portò impressi nella memoria e li citò spesso nelle sue opere; anzi, scrisse un’opera proprio sulla musica, il De Musica. Egli afferma di non approvare, durante le liturgie cantate, la ricerca del mero piacere sensibile, ma riconosce che la musica e il canto ben fatti possono aiutare ad accogliere la Parola di Dio e a provare una salutare commozione. Questa testimonianza di Sant’Agostino ci aiuta a comprendere il fatto che la Costituzione Sacrosanctum Concilium, in linea con la tradizione della Chiesa, insegna che «il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne» (n. 112). Perché «necessaria ed integrante»? Non certo per motivi puramente estetici, in un senso superficiale, ma perché coopera, proprio per la sua bellezza, a nutrire ed esprimere la fede, e quindi alla gloria di Dio e alla santificazione dei fedeli, che sono il fine della musica sacra (cfr ibid.). Proprio per questo vorrei ringraziarvi per il prezioso servizio che prestate: la musica che eseguite non è un accessorio o solo un abbellimento esteriore della liturgia, ma è essa stessa liturgia. Voi aiutate l’intera Assemblea a lodare Dio, a far scendere nel profondo del cuore la sua Parola: con il canto voi pregate e fate pregare, e partecipate al canto e alla preghiera della liturgia che abbraccia l’intera creazione nel glorificare il Creatore. 
Il secondo aspetto che propongo alla vostra riflessione è il rapporto tra il canto sacro e la nuova evangelizzazione. La Costituzione conciliare sulla liturgia ricorda l’importanza della musica sacra nella missione ad gentes ed esorta a valorizzare le tradizioni musicali dei popoli (cfr n. 119). Ma anche proprio nei Paesi di antica evangelizzazione, come l’Italia, la musica sacra -con la sua grande tradizione che è propria, che è cultura nostra, occidentale - può avere e di fatto ha un compito rilevante, per favorire la riscoperta di Dio, un rinnovato accostamento al messaggio cristiano e ai misteri della fede. Pensiamo alla celebre esperienza di Paul Claudel, poeta francese, che si convertì ascoltando il canto del Magnificat durante i Vespri di Natale nella Cattedrale di Notre-Dame a Parigi: «In quel momento – egli scrive – capitò l’evento che domina tutta la mia vita. In un istante il mio cuore fu toccato e io credetti. Credetti con una forza di adesione così grande, con un tale innalzamento di tutto il mio essere, con una convinzione così potente, in una certezza che non lasciava posto a nessuna specie di dubbio che, dopo di allora, nessun ragionamento, nessuna circostanza della mia vita agitata hanno potuto scuotere la mia fede né toccarla». Ma, senza scomodare personaggi illustri, pensiamo a quante persone sono state toccate nel profondo dell’animo ascoltando musica sacra; e ancora di più a quanti si sono sentiti nuovamente attirati verso Dio dalla bellezza della musica liturgica come Claudel. E qui, cari amici, voi avete un ruolo importante: impegnatevi a migliorare la qualità del canto liturgico, senza aver timore di recuperare e valorizzare la grande tradizione musicale della Chiesa, che nel gregoriano e nella polifonia ha due delle espressioni più alte, come afferma lo stesso Vaticano II (cfr Sacrosanctum Concilium, 116). E vorrei sottolineare che la partecipazione attiva dell’intero Popolo di Dio alla liturgia non consiste solo nel parlare, ma anche nell'ascoltare, nell'accogliere con i sensi e con lo spirito la Parola, e questo vale anche per la musica sacra. Voi, che avete il dono del canto, potete far cantare il cuore di tante persone nelle celebrazioni liturgiche. 
Cari amici, auguro che in Italia la musica liturgica tenda sempre più in alto, per lodare degnamente il Signore e per mostrare come la Chiesa sia il luogo in cui la bellezza è di casa. Grazie ancora a tutti per questo incontro! Grazie.

BENEDICTUS PP. XVI 

Discorso all’incontro promosso dall’Associazione Italiana Santa Cecilia.

Sala Stampa della Santa Sede

A Torcello una Basilica dimenticata




di Alberto Vitucci per la Nuova di Venezia e Mestre
Infiltrazioni d’acqua, muri scrostati, mattoni che cadono. Si aggravano le condizioni dell’abside della Basilica di Santa Maria Assunta a Torcello. Le piogge, il degrado dei materiali, le scosse di terremoto. Nessuno è intervenuto, e adesso la situazione è all’emergenza. I piccoli crolli mettono a rischio una della parti più antiche e preziose della storia di Venezia. L’abside della Basilica di Torcello, prima sede vescovile, ha resistito per mille anni con i suoi splendidi mosaici. E adesso è a rischio. «Non abbiamo fondi per la manutenzione, il governo li ha tagliati», denuncia disperato don Antonio Meneguolo, responsabile della Curia veneziana per i Beni culturali, «adesso abbiamo fatto richiesta dell’8 per mille, ma i fondi non arriveranno, ci hanno detto alla Presidenza del Consiglio, prima del 2013». Intanto il danno si aggrava. La vergine Odighitria, splendido mosaico bizantino dell’anno Mille, guarda dall'alto  Il trono vescovile in pietra è a rischio, come la storica iscrizione dell’altar maggiore dove sono custodite le spoglie di Sant’Eliodoro, vescovo di Altino. Per terra frammenti di marmo e di mattoni, materiali che rischiano di andare perduti per sempre. Nei prossimi giorni arriveranno (forse) i soldi promessi nel 2009 per il restauro del campanile di Torcello. Torre campanaria tra le più antiche in laguna, ingabbiata da anni in una quasi arrugginita impalcatura. Anche qui la situazione è critica, i lavori fermi. E i soldi comunque non basteranno per i lavori dell’abside. Situazione drammatica  perché riguarda buona parte dell’immenso patrimonio artistico religioso della città. «Ci hanno tolto i finanziamenti», continua il monsignore, «e non siamo in grado di provvedere al restauro delle chiese, dei monumenti religiosi e delle opere d’arte». Grido d’allarme lanciato anche davanti ai Comitati privati, l’altro giorno a palazzo Zorzi. «Inutile difendere Venezia dalle acque», aveva detto il sindaco Orsoni, «se nella città non è rimasto più nulla da difendere». I resti dei 42 milioni di euro stanziati dal Comitatone nel 2008 arrivano solo col contagocce dalla Regione. I 50 milioni stanziati nel 2010 non si sono mai visti. «Se non abbiamo fondi sicuri ogni anno», spiega don Meneguolo, «non riusciamo a mettere a punto un piano di restauro credibile».Vanno avanti solo piccoli interventi, finanziati dai Beni culturali e con gli introiti di Chorus e di qualche privato. Ma la stragrande maggioranza delle chiese aspetta. A cominciare da Torcello, simbolo della storia veneziana e della civiltà romanica e bizantina.
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